“Ho iniziato il governo con 850mila euro di patrimonio personale, oggi ne ho 200 mila”. Povero Carlo Calenda. Povero, non esageriamo: gli resta sempre un bel gruzzoletto. Ma la politica ha prosciugato il suo conto in banca, almeno così dice. Sarà per questo, forse, che poco prima di lasciare il ministero dello Sviluppo aveva fatto domanda per l’assegno di fine mandato: circa 40mila euro per una legislatura, che però la legge non prevede per i ministri non parlamentari e per cui lui non aveva versato un centesimo. Infatti la Ragioneria dello Stato gliel’ha rifiutato.
Predecessore di Di Maio al Mise (con cui non perde occasione di battibeccare), da circa un anno anche iscritto al Partito democratico senza troppa fortuna, fra inviti a cena mancati e polemiche continue, Carlo Calenda ha sempre fatto della trasparenza una crociata personale. Criticando duramente gli avversari, come di recente Paolo Savona, additato per aver fatto comprare al suo ministero degli Affari Europei svariate copie del suo ultimo libro (“una cosa indegna e anche piuttosto miserabile”, il suo commento). E rivendicando invece il proprio stile. “Sono un uomo pubblico, non ci sono segreti relativi a reddito e patrimonio”, tuonava perentorio giusto qualche giorno fa su Twitter. Sui social network l’ex ministro risponde ed elargisce informazioni sulla sua situazione economica, scendendo anche più nei dettagli rispetto al suo ultimo 730 pubblicato l’anno scorso sul sito del ministero, in cui dichiarava 102.786 euro. Spiega che durante il suo mandato ha guadagnato circa 7 mila euro al mese. Aggiunge con un pizzico di autocommiserazione che non ha neppure preso il Tfr. Tutto vero. Con una piccola omissione: il Tfr aveva provato a prenderlo, nonostante non ne avesse diritto.
Siamo ad aprile 2018, un mese dopo le elezioni politiche, in piene consultazioni per la formazione del nuovo governo: nei vari ministeri i rappresentanti del vecchio esecutivo Gentiloni cominciano a fare gli scatoloni. E dal Mise parte una strana richiesta, che quando è arrivata a via XX settembre lascia di stucco i tecnici della Ragioneria: Calenda chiede la “corresponsione” dell’indennità di fine mandato per le cariche da lui ricoperte al dicastero. Prima sottosegretario e viceministro dei governi Letta e Renzi da maggio 2013 a marzo 2016, quindi una brevissima parentesi di un paio di mesi a Bruxelles come rappresentante permanente Ue dell’Italia, per poi tornare a Roma, stavolta proprio come ministro, di nuovo per Renzi e infine per Gentiloni.
Praticamente l’intero arco della legislatura. Secondo la normativa di riferimento, il Tfr viene calcolato sulla base dell’indennità parlamentare: per ogni anno di mandato, si ha diritto all’80% del lordo mensile che ammonta a 10.435 euro. Sono circa 9.400 euro: così al termine di una legislatura l’assegno arriva poco sopra i 40 mila euro.
È più o meno la cifra che avrebbe voluto Calenda. C’è un problema, però: lui era un ministro non parlamentare, per cui l’ordinamento non prevede il Tfr. I membri del governo extraparlamentari prendono un’indennità, circa 9.500 euro lordi al mese. Dal 2000 è stata estesa anche a loro la diaria parlamentare (altri 3.500 euro netti), come rimborso delle spese sostenute nella Capitale. Non c’è però l’assegno di fine mandato. Anche perché loro non versano nulla, a differenza dei parlamentari a cui ogni mese viene trattenuta una quota dell’indennità (784 euro per i deputati, 699 per i senatori), come contributo per il trattamento di fine rapporto. Ed è proprio quello che gli ha risposto la Ragioneria dello Stato: per legge il Tfr non gli spetta. Non solo: riconoscerglielo avrebbe significato creare un onere per lo Stato sprovvisto di copertura, visto che lui non ha mai lasciato un centesimo della sua indennità nell’apposito fondo.
La richiesta è stata così archiviata nel giro di un paio di mesi. Resta una domanda: come mai un ministro preparato come Calenda batteva cassa per un emolumento a cui non aveva diritto? Contattato dal Fatto, il diretto interessato ha preferito non rispondere. Magari non conosceva la legge. O forse ci ha provato ugualmente. Come si dice: tentar non costa, specie se sono soldi dello Stato.