Non sappiamo se si tratti di malafede o di incapacità di valutare cosa è importante e cosa no. Sappiamo però che c’è qualcosa di profondamente sbagliato e surreale nella sproporzione tra l’enorme spazio dedicato da siti internet, giornali e tv alla nuova legge sulla legittima difesa e l’assenza pressoché totale di informazioni sul dibattito parlamentare riguardante la riforma delle norme sul voto di scambio politico-mafioso.
La questione della legittima difesa è certamente interessante. Ha rischiato di spaccare la maggioranza, ha scaldato gli animi, ha spinto i talk show a organizzare continui faccia a faccia. Ma chiunque sia onesto intellettualmente deve ammettere che tutta la discussione ruota intorno a una legge destinata a non incidere sulla vita della stragrande maggioranza degli italiani. Detto in altre parole: ciascuno è libero di considerare buone o cattive le nuove norme (e noi qui pensiamo che siano in gran parte cattive), ma subito dopo deve fare i conti con la realtà. Deve cioè ricordare (e ricordarsi) che i casi di legittima difesa di cui si occupano ogni anno i magistrati sono pochissimi: erano otto nel 2013, uno nel 2014, quattro nel 2015, due nel 2016. Al contrario sono molte centinaia i politici di ogni ordine e grado eletti grazie all’appoggio delle mafie. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ci spiega che in Calabria le ’ndrine controllano il 30 per cento dei voti. Il susseguirsi delle indagini e dei processi ci racconta che con i boss ci si accorda prima delle elezioni in tutta Italia: dalla Val d’Aosta, dove sono stati arrestati un consigliere regionale e due consiglieri comunali, fino alla Sicilia dove le ultime manette riguardano un ex deputato regionale, Paolo Ruggirello, candidato dal Pd nonostante i tanti allarmi sul tipo di consenso elettorale che era solito raccogliere, lanciati da giornalisti e militanti del suo stesso partito.
Ora se è perfettamente comprensibile che le forze politiche cerchino di nascondere lo sporco sotto il tappeto è invece deontologicamente e professionalmente ingiustificabile che lo stesso facciano tanti sedicenti “operatori dell’informazione”. Per due motivi. Il primo è – o dovrebbe essere – scontato. Le storie riguardanti i rapporti tra mafia e politica da sempre interessano i lettori. Tutti vogliono sapere come si comportano coloro i quali sono stati eletti per amministrare e spendere i soldi delle tasse dei cittadini. Nascondere o non pubblicare notizie di questo genere vuol dire o non saper fare il proprio mestiere (eventualità da non escludere, vista la crisi di molti giornali) o aver scelto di soddisfare i desideri dei propri referenti politici a scapito di quelli del pubblico.
Il secondo motivo ha invece a che fare con la coerenza. La maggior parte delle testate si dichiarano (giustamente) preoccupate dalla situazione economica, chiedono a gran voce investimenti e interventi a favore delle imprese. Ma se queste posizioni sono davvero mosse dal desiderio del “bene del Paese” non si può far finta di non sapere quale zavorra per la nostra economia rappresentino i clan.
Certo, ci può essere anche chi ritiene la nuova legge sbagliata. I parlamentari di Forza Italia dicono che “con questa norma si svuoteranno i consigli comunali” e che “si rischia di trasferire il Parlamento in galera”. Quelli del Pd sostengono invece che è inutile. Ma comunque la si pensi, nei giornali e nelle tv tutto si può fare tranne che non raccontare ciò che accade in Parlamento. Perché altrimenti l’informazione diventa un’altra cosa e va chiamata propaganda.