Via Sant’Arialdo è una strada stretta e lunga in mezzo alle campagne di Milano. Zona Corvetto, più dietro la tangenziale, San Donato e il boschetto della droga di Rogoredo. Qui, al civico 90, c’è una cascina. Non è in buone condizioni ma è abitabile. Questo è stato l’ultimo indirizzo di Imane Fadil. “Ora – spiega una signora – non ci abitano più”. Qui la modella marocchina di 34 anni si è sentita male. Da qui è partita, probabilmente accompagnata da un amico, per l’ospedale Humanitas di Rozzano. La sua ultima corsa. È il pomeriggio del 29 gennaio. Imane morirà 30 giorni dopo, la mattina del primo marzo. Un mese di agonia, di misteri e di contraddizioni. Tante, infatti, sono le cose non chiarite di una vicenda che solo due giorni fa è diventata pubblica con la notizia di un’indagine penale per omicidio. Imane è stata avvelenata. È un’ipotesi concreta, ma non una certezza. Torniamo dunque al pomeriggio di venerdì, quando il procuratore Francesco Greco, durante una breve conferenza stampa, fornisce qualche dato generale. Il resto rimane top secret. Il riserbo è massimo.
La situazione, va da sé, è delicata. Imane Fadil era una delle testimoni chiave del Rubygate. Più volte aveva confidato tentativi di corruzione per comprare il suo silenzio. Il procuratore nella stringata comunicazione riferisce di “anomalie” nelle cartelle cliniche. Cosa questo voglia dire resta un punto di domanda. La riposta di Humanitas è chiarissima: è stato fatto tutto in modo corretto. Successivamente emergerà l’ipotesi di un avvelenamento. Nella serata di venerdì, l’avvelenamento diventa per sostanze radioattive. Il caso è esploso definitivamente. Ma quanto è reale? E perché compare l’ombra di un omicidio in stile Kgb? Uno scenario che ieri è stato spazzato via dai responsabili del centro veleni della Maugeri di Pavia. Nessuna sostanza radioattiva, questa in sintesi la loro posizione. Capirci qualcosa non è facile. Ripartiamo allora dal ricovero del 29 gennaio. Quando Imane arriva, mostra una situazione midollare già molto compromessa. Non riesce a parlare, ha dolori e gonfiori. Subito viene presa in carico da un’équipe multidisciplinare e messa in terapia intensiva. Mostra poi una mancanza pressoché assoluta di globuli bianchi.
Durante il ricovero subirà diverse trasfusioni. I medici iniziano da ipotesi generali. Molto viene scartato, dai tumori a malattie degenerative. Poi la ragazza mostra qualche miglioramento. Per questo viene trasferita nel reparto di Medicina generale. Gli organi principali però funzionano a scartamento ridotto. Poi iniziano a collassare. Dopo il midollo, il fegato e infine i reni. In Humanitas molte valutazioni vengono scartate.
Ciò che colpisce, però, è il danno al midollo. Un dato sicuramente compatibile con la presenza di sostanze radioattive. È un’ipotesi non una certezza. Anche per questo Imane resta in reparto e non viene trasferita in una unità protetta. L’ipotesi di sostanze radioattive però pare in contraddizione con i risultati spiegati ieri dal Centro veleni di Pavia che illustra, in qualche modo, il contenuto del referto tossicologico trasmesso alla Procura. Qui vengono individuati cinque metalli nel sangue. Sono cobalto, cromo, nichel e molibdeno. Il cobalto è compatibile con elementi radioattivi, ma è risultato presente nel sangue della modella in percentuali piccolissime rispetto a un alert concreto. E comunque sia, il centro di Pavia non è in grado di fare dei match per comprendere la radioattività. Da qui il cortocircuito con le dichiarazioni di Humanitas. Insomma, c’è sostanza radioattiva oppure no? In realtà è una contraddizione solo apparente. Pavia, infatti, non esclude a priori la presenza, spiega solamente che non sono stati fatti i match. E del resto, come ricostruito dal Fatto, le analisi sono state fatte su 50 elementi standard. Una griglia che esclude moltissime altre sostanze. Detto questo, restano gli allarmi lanciati prima dal fratello e poi da legale di Imane. Entrambi parlano di avvelenamento. E l’avvelenamento è un’ipotesi concreta seguita dai magistrati. C’è però un altro buco nero in questa storia: l’autopsia. Perché non è stata fatta subito? Perché si è atteso oltre due settimane? Di certo l’analisi sui tessuti e non sul sangue potrebbe spiegare molte più cose. Ad esempio la presenza di un tumore raro non individuato dagli esami precedenti. Ma l’autopsia ancora deve essere fatta e questo nonostante la Procura fosse stata avvertita della grave situazione già dieci giorni prima della morte della testimone dei Bunga bunga di Arcore.