Si è parlato a lungo in queste settimane di violenze sui minori, soprattutto maschi. Ora, grazie all’eccezionale documentario di Elizabeth Drévillon, Marie-Pierre Raimbault e Eric Quintin, “Religieuses abusées, l’autre scandale de l’Église” (che dà conto degli stupri sulle religiose in Africa e in Europa), si parla finalmente di quelle sulle donne. Gli autori sono sempre i medesimi: i preti. Omosessuali, eterossessuali, bisessuali, ma sempre e solo preti. Certo, nei confronti delle donne esiste tra i sacerdoti cattolici un disprezzo tutto particolare, quello appreso in tanti anni di frequentazione di ambienti tutti maschili e grondanti di violenta misoginia, ma le modalità di fondo degli abusi rimangono identiche.
Identiche sono, in tutte le situazioni, le coperture di cui gli artefici delle violenze hanno goduto a tutti i livelli dentro un’organizzazione nella quale contano soprattutto la fedeltà alla gerarchia e la volontà di difendere, costi quel che costi, la buona immagine pubblica.
Identiche sono le cause: le gravi inibizioni allo sviluppo di una normale e serena vita sessuale ed affettiva maturate in seminario, l’incapacità a costruire dei rapporti basati sulla parità e sul rispetto reciproco, la convinzione di avere il diritto di usare il prossimo come un oggetto senza alcun valore intrinseco e di essere per giunta destinati a rimanere totalmente impuniti, grazie all’appartenenza ad un gruppo sociale, la casta clericale, dotato di un potere infinitamente superiore rispetto a quello delle vittime.
Identica è anche la situazione delle persone oggetto delle violenze, dei bambini e delle donne. Al pari dei bambini abusati infatti, molte delle religiose vittime delle attenzioni indesiderate dei preti nutrivano in perfetta buona fede un’ammirazione incondizionata e un rispetto senza pari verso ciò che i propri aguzzini rappresentavano, cioè verso la figura del sacerdote come uomo di Dio. Sono stati proprio questi i sentimenti che gli abusatori hanno sfruttato per perpetrare le proprie violenze.
Non mi stupirei se si venisse a sapere che, come avvenuto in altri casi di soprusi clericali, gli abusatori dei quali si parla nel documentario hanno fatto le stesse cose anche con adolescenti di entrambi i sessi o con qualche seminarista. Quel che è in gioco in queste situazioni non è infatti l’attrazione fisica, ma l’ebrezza di esercitare un potere assoluto su una persona che non può reagire, che non può sottrarsi. L’abusatore è in definitiva un vigliacco e ciò che lo eccita, ciò che rende la vittima veramente appetibile ai suoi occhi, è la sua impossibilità di reagire, la sua impotenza, la sua sottomissione psicologica o il fatto che non si renda ben conto di quel che sta avvenendo. Poco conta, da questo punto di vista, che sia maschio o femmina, bambino o giovane o adulto.
Un bambino traumatizzato, proprio per effetto dello shock subito, faticherà a lungo ad ammettere anche a se stesso quel che è avvenuto col prete. Lo stesso farà una donna che ha deciso di consacrare la sua vita a Dio. Costei, confusa e terrorizzata, prima di denunciare l’aggressore, si torturerà chiedendosi cosa ha sbagliato, quale sia stata la sua colpa, se non sia stata per caso lei a sedurre involontariamente il prete. Si chiederà se denunciare il prete non significhi per caso gettare fango su quell’istituzione alla quale ha fatto voto di assoluta obbedienza. Per questo secondo i preti, lo si dice nel documentario francese, le religiose sono meglio delle parrocchiane e delle prostitute. Perché è più difficile che “cantino”, che riferiscano ad altri quel che hanno subito dal sacerdote.
Gli autori del documentario hanno dichiarato di sperare che la Chiesa si adoperi per evitare che fatti come questi si ripetano. È una speranza nobile, ma vana. Perché per abolire il clericalismo alla base dei crimini che costoro hanno raccontato le dichiarazioni di intenti non servono a nulla: bisognerebbe abolire lo stesso clero, smantellare i seminari, riconoscere pari dignità e ruolo alle donne, informare il funzionamento dell’organizzazione ai principi della democrazia e dell’uguaglianza. Un’utopia.