Anche gli storici ormai riconoscono nel 1978 una data periodizzante della storia dell’Italia repubblicana che coincide con la fine di uno sviluppo espansivo e di segno progressivo della vita nazionale sul piano economico, sociale, civile e culturale: subito prima la crescita vertiginosa dello stragismo di destra e della lotta armata di sinistra coincise con il punto più alto della legittimità democratica della cosiddetta “Repubblica dei partiti”.
Mentre subito dopo, si assistette alla progressiva sconfitta del terrorismo ma iniziò anche il declino dei grandi partiti di massa che cominciarono a perdere la loro presa sulla società proprio quando celebravano la più grande vittoria, ossia la tenuta delle istituzioni democratiche davanti alla duplice sfida portata avanti dal “partito delle stragi” e dal “partito armato”. Col trascorrere degli anni, il sequestro di Moro e la sua uccisione – i due momenti devono essere tenuti distinti perché se le Brigate rosse avessero voluto assassinare Moro e basta lo avrebbero fatto già il 16 marzo insieme con gli agenti della scorta – si sono trasformati in un luogo paradossale e ambiguo della memoria repubblicana: per un verso, tutti sono inclini ad affermare il valore simbolico e il rilievo di quei 55 giorni nella storia italiana, per un altro, non esiste probabilmente altro argomento in grado di suscitare divergenze interpretative e di provocare polemiche tanto laceranti. È come se la comunità nazionale avesse scelto di non curare la ferita provocata dalla morte di Moro, e abbia preferito lasciarla andare in putrefazione puntando sull’inevitabile processo di dimenticanza e di sfinimento dei cittadini, scommettendo sulla sua trasformazione in una grande nevrosi collettiva: la storia di un trauma e della sua mancata rielaborazione sul piano storico.
La sterminata saggistica sull’argomento si è divisa e ossificata in due filoni generali, ormai prevedibili nelle loro movenze e retoriche, quello degli “spiegazionisti a oltranza” e quello dei “dietrologi”. Per i primi tutto sarebbe chiaro ed è come appare: la storia delle Brigate rosse, i comportamenti della politica e del governo, la dinamica del sequestro, la morte di Moro, la tormentata vicenda dei suoi scritti dalla prigionia. Nel campo della saggistica si è realizzata una sorta di pacificazione interpretativa, del tutto interessata, fra i nemici di ieri – le forze dello Stato e quelle dell’anti-Stato – in piena corrispondenza con quanto avvenuto sul terreno giudiziario nel corso degli anni Ottanta del Novecento. Sarebbe, dunque, emersa una verità “ufficiale”, “dicibile”, “concordata”, “pattuita” sul caso Moro, periodicamente amplificata da zelanti campagne giornalistiche, in cui si registra una perfetta e simmetrica coincidenza tra le versioni accreditate dagli uomini di governo di allora e quella dei militanti del “partito armato” di ieri, all’insegna di un imprevedibile “c’eravamo tanto odiati”.
Questo incontro, soltanto all’apparenza incestuoso e impensabile in altri Paesi civili, è simbolicamente culminato in una patetica sceneggiata italiana, andata in onda in televisione nel marzo 2005, che vide protagonisti l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga e l’ex brigatista Adriana Faranda, i quali si rimpallarono davanti alla telecamera, tra moine, buffetti e reciproci contriti ammiccamenti, l’effettiva responsabilità di avere ucciso Moro. Al contrario per i “dietrologi” nulla è come appare e tutta la storia sarebbe frutto di un inestricabile intreccio di trame nazionali e internazionali, variamente intese e di opposto colore sino al punto che la visione cospirativa e ossessionata dei terroristi finisce per coincidere con quella dei loro interpreti. Come ha notato Giovanni Moro, si tratta “di due pensieri ‘forti’ e del tutto autoreferenziali” che “utilizzano paradigmi di razionalità abnormi”: quello dietrologico è un “paradigma di fantascienza, in cui davvero tutto è possibile”; quello spiegazionista invece, “fa pensare, più che altro a una razionalità di un organismo monocellulare”. Due forme di arroganza del pensiero. E così, entrambe le attitudini, all’apparenza tanto distanti, si sono trasformate nelle due facce della stessa medaglia perché le finalità sono troppo spesso le medesime: semplificare per negare, complicare per confondere.
Intendiamoci: molti di questi contributi meritano rispetto e attenzione scientifica e sarebbe sbagliato pensare che sposare una tesi precostituita o scrivere a ridosso degli avvenimenti, animati da ragioni identitarie di ordine politico, giudiziario o affettivo sia di per sé un fattore che inficia il rigore dell’analisi. Che dire? Armi e bagagli (1987) di Enrico Fenzi è un libro importante, così come quello di Alfredo Carlo Moro, Storia di un delitto annunciato (1998) ed è secondario che gli autori siano l’uno un brigatista e l’altro il fratello dell’uomo politico democristiano. Sono belli e utili a prescindere. La tendenza dietrologica ha un preciso momento di inizio, ossia il romanzo I giorni del diluvio, uscito anonimo nel 1985, e la cui paternità, che corrisponde al nome di Franco Mazzola, emerse soltanto cinque anni dopo. L’opera merita attenzione perché il suo autore, nella primavera 1978, era il sottosegretario al ministero della Difesa e, nel marzo 1979, ricevette la delega ai Servizi segreti. Egli, dunque, si trovò nell’occhio del ciclone, dove notoriamente si capisce poco o nulla della reale dimensione della tempesta in corso e dei suoi effetti distruttivi. Tuttavia, ritenne opportuno, seppure abbracciando la libertà dell’invenzione romanzesca che consente, per statuto, di mescolare il vero, il falso e il verosimile, di fornire una propria interpretazione dei fatti, utilizzando nomi di fantasia facilmente individuabili.
La dietrologia italiana sull’affaire Moro, quindi, ha un’origine dall’alto, diciamo pure di carattere istituzionale, a riprova della sua preziosa funzione sovversiva e diversiva. Essa si propone di alzare una coltre interpretativa utile a mascherare la verità storica, con l’argomento di cercarla sempre e ancora altrove, attribuendo così la responsabilità dell’epilogo del sequestro Moro a forze straniere e non ai conflitti fazionari all’interno delle classi dirigenti italiane, anche del “partito armato”, ovviamente. Ciò è avvenuto con un evidente scopo autoassolutorio e deresponsabilizzante che è servito a garantire la sopravvivenza personale, professionale e politica della stragrande maggioranza dei protagonisti della vicenda, sia dalla parte del fronte governativo sia da quella dell’aria di contiguità alla lotta armata, un fenomeno ormai ridotto, nel sentire comune, alle sole Brigate rosse e a Prima linea o quasi.
A questo proposito forse non è inutile ricordare che una ricerca statistica del 1981, basata sulla rivendicazione dei singoli attentati nel decennio precedente, registrò la presenza in Italia di ben 484 sigle praticanti, a sinistra, la lotta armata, più altre 92 che realizzarono soltanto una o due azioni. Dove sono finiti gli autori di queste imprese? Evaporati, acquattati, sommersi, immersi, trasformati, cambiati, rinnegati, sopravvissuti, essi sono ancora fra noi. Spero che anche loro leggeranno questo libro, il quale però è soprattutto rivolto a quanti nel 1978 non c’erano ancora e non hanno memoria di ciò che accadde: a chi adesso ha vent’anni ed è curioso di sapere da dove veniamo e di immaginare dove stia andando l’Italia di oggi, zoppicante ma, come sempre, in cammino.