Mentre si discute se il sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per corruzione in una brutta storia siciliana, debba lasciare il governo o no, diciamo subito una cosa: Siri non avrebbe mai dovuto entrarci, nel governo, avendo patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Se ci avessero chiesto di scommettere su chi avrebbe provocato il primo scandalo giallo-verde, avremmo puntato su Siri. Specie alla luce delle sue incredibili interviste a favore del Tav, dei condoni, della deregulation sugli appalti e contro l’Anticorruzione (“Per combattere le tangenti basta il buon senso”). Eppure Salvini, dopo aver tentato di promuovere il bancarottiere a ministro (beccandosi il niet del M5S), riuscì a piazzarlo come vice di Toninelli, a far la guardia alle grandi opere tanto care al Partito degli Affari. Ora però, oltre alla bancarotta, c’è un’altra ottima ragione perché Siri tolga il disturbo: l’accusa di aver asservito le pubbliche funzioni di membro del governo e del Parlamento per far approvare – in cambio di 30mila euro – norme a favore di un imprenditore del ramo energia eolica, a sua volta ritenuto socio occulto di un uomo legato a Matteo Messina Denaro.
I dettagli li trovate alle pagg. 2-5 del giornale nelle cronache di Valeria Pacelli e nell’analisi di Marco Lillo. Qui bastano pochi elementi per illustrare la gravità dei fatti. Non solo per l’indagato Siri, ma anche per il non indagato Salvini. Il 16 luglio 2017 il leader leghista invita a parlare al convegno programmatico a Piacenza un certo Paolo Arata, genovese come Siri, ex deputato di Forza Italia, ora imprenditore dell’eolico con varie società fra cui Etnea Srl di Trapani. E lo accredita con tre tweet che lo esaltano come autore del programma della Lega sull’energia. Come far scrivere il programma sui trasporti alla Fiat o quello sulla sanità alla Bayer. Il 1° giugno 2018 Salvini diventa vicepremier e ministro dell’Interno. E ancora una volta se ne infischia del plateale conflitto d’interessi di Arata, tentando di piazzarlo addirittura alla presidenza dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera). La volpe a guardia del pollaio. Ma il ministro responsabile della nomina è Di Maio, e Arata non passa. Ora i pm di Palermo che danno la caccia a Messina Denaro scoprono alcune cosette.
1) Arata è socio occulto e prestanome del “re dell’eolico”, Vito Nicastri, ai domiciliari dopo una condanna definitiva per corruzione e truffa nell’eolico e una misura di prevenzione antimafia con confisca-record di 1,3 miliardi per i legami con Messina Denaro.
2) Arata è salito sul carro di Salvini e Siri, ma non è mai sceso da quello della peggior vecchia politica siciliana, infatti per i permessi dalla Regione Siciliana mobilita Alberto Dell’Utri (fratello del mafioso Marcello), Calogero Mannino e Gianfranco Miccichè;
3) Arata – scrivono sempre i pm – chiede a Siri “una modifica regolamentare degli incentivi connessi al mini-eolico”, più favorevole alle sua società, e Siri, anziché levargli il saluto, si attiva. Ma viene stoppato dal ministero dello Sviluppo, retto sempre da Di Maio.
Ora, non sappiamo se Siri abbia davvero ricevuto quei 30mila euro da Arata, o almeno li abbia pattuiti: lo stabiliranno i giudici, con qualche difficoltà, vista l’incredibile decisione degli inquirenti di interrompere le intercettazioni sul cellulare di Arata proprio mentre stava per incontrare Siri in un ristorante di Roma. Ma bastano i fatti fin qui accertati per aprire un enorme problema politico nel governo: simile ma ancor più grave (viste le implicazioni mafiose) di quello che portò alle dimissioni dal governo Renzi di Federica Guidi per un emendamento pro petrolieri sollecitato da un lobbista compagno della ministra. Né Salvini né Siri sapevano che Arata è legato all’uomo di Messina Denaro (anche se le sue società eoliche avrebbero dovuto allarmarli: nel Trapanese lo sanno anche le pietre che le pale bianche sono targate Messina Denaro).
Dunque, almeno per il suo conflitto d’interessi, Salvini avrebbe dovuto evitare di fargli scrivere il programma sull’energia e di sponsorizzarlo all’Arari; e, da ministro dell’Interno (e della Polizia), avrebbe potuto informarsi sulle sue strane attività trapanesi. Non l’ha fatto e dovrebbe scusarsi con gli italiani, leghisti e non, per la clamorosa leggerezza commessa di puntare sull’uomo sbagliato. E prestare in futuro maggiore attenzione a chi sale sul suo carro, soprattutto al Sud. Siri, che incontrava spesso Arata, avrebbe dovuto respingere le sue richieste di interventi normativi ad personam: invece si diede da fare per assecondare i suoi interessi privati, e tanto basta – che l’abbia fatto gratis o in cambio di mazzette – a renderlo incompatibile (come la Guidi) con un incarico di governo.
La vecchia Lega Nord di Bossi, al solo sentir parlare di appalti in Sicilia e di suoi uomini in combutta col socio del prestanome di un boss, per giunta amico dei Mannino e dei Dell’Utri, avrebbe fatto subito piazza pulita. Invece Salvini difende a spada tratta Siri (di Arata prudentemente non parla) e chiede le dimissioni indovinate di chi? Della Raggi. Cioè: la sindaca di Roma, che diversamente da Siri non è né indagata né sospettata di prendere tangenti, deve dimettersi per non aver firmato lo strano bilancio dell’Ama già bocciato da collegio sindacale, ragioniere generale, direttore generale, segretario generale del Comune, che avrebbe consentito ai dirigenti di assegnarsi lauti premi per il pessimo servizio reso alla città. Invece Siri, indagato per tangenti in quel bell’ambientino, deve restare al governo. Forse un giorno capiremo perché Salvini non può scaricare né Siri né Arata. E forse non sarà una bella scoperta.