Come milioni di donne, anche la 39enne di Los Angeles Diana ha utilizzato quotidianamente un’app per il ciclo mestruale, registrando dati relativi a fertilità, rapporti intimi, farmaci assunti e umore. Poi, quando ha partorito, ha deciso di tracciare anche le informazioni del suo bimbo, compreso nome, luogo di nascita e stato di salute. Ma a monitorare quei dati così sensibili non era sola. Anche qualcun altro li controllava regolarmente: il suo datore di lavoro, che ha pagato i gestori dell’app per conoscere le sue abitudini e discriminarla.
A scoprire la nuova frontiera della cessione dei dati personali è stato il Washington Post che con un’inchiesta di Drew Harwell ha lanciato un nuovo e più sconvolgente allarme sulla privacy dei lavoratori. Il quotidiano americano ha messo sotto accusa l’app Ovia che negli Stati Uniti, con oltre 10 milioni di utenti, è diventata un potente strumento di monitoraggio per i datori di lavoro e gli assicuratori sanitari, che sotto la bandiera del benessere aziendale hanno spinto in modo aggressivo a raccogliere più dati sulla vita delle lavoratrici. Del resto usare un’app Female technology, vale a dire quei prodotti e servizi che ruotano attorno al mondo della salute della donna, significa monitorare quante si volte esce, si beve alcol, si fuma, si prendono medicine, si fa sesso, si ha il ciclo o si è in ovulazione e com’è la qualità del sonno.
In poche parole, dati che – quando vengono trasferiti a pagamento alle aziende – possono essere utilizzati per scoprire se quella dipendente è in grado di reggere a un maggiore stress lavorativo, se sta pensando di rimanere incinta (e allontanarsi mesi dal posto di lavoro), come la neo mamma pianifica di tornare al lavoro o se i figli sono cagionevoli di salute (con la conseguenza che la donna possa prendersi un maggior numero di ferie o di malattia).
Ma il meccanismo scoperto dal Washington Post è ancora più subdolo: Diana, così come altre milioni di donne, aveva deciso di tenere traccia della propria gravidanza, perché l’azienda presso cui lavorava le regalava 1 dollaro al giorno in carte regalo per spingerla a usare l’app, adducendo come giustificazione la possibile riduzione della spesa sanitaria, la scoperta di eventuali problemi medici e una migliore pianificazione dei carichi di lavoro. “Il fatto che le gravidanze delle donne siano seguite da vicino dai datori di lavoro è molto preoccupante”, ha spiegato Deborah C. Peel, una psichiatra e fondatrice del non-profit per i diritti del paziente interpellata dal quotidiano. “È la più grande discriminazione nei confronti delle madri e delle famiglie sul posto di lavoro – ha aggiunto – che le spingerà a non fidarsi più del loro datore di lavoro che, ovviamente, ha a cuore solo i propri profitti economici”.
La Ovia ha spiegato di rispettare le leggi sulla privacy e che fornisce alle aziende solo i dati aggregati in modo che i datori di lavoro possano valutare come è cambiata nel tempo la condizione di salute dei loro dipendenti. Ma la Ovia continua a ingrossare i propri bilanci sia con i soldi che chiede alle aziende che vogliono monitorare le dipendenti che con i ricavi della pubblicità, compresi quelli che arrivano da assicurazioni sulla vita, servizi bancari e prodotti per l’igiene personale. Intanto l’aumento delle app per il benessere fisico e per il ciclo mestruale, sottolinea il quotidiano americano, dimostrano come le aziende considerino sempre più il corpo umano una miniera d’oro tecnologica, ricca di una vasta gamma di dati sulla salute che i loro algoritmi possono tracciare e analizzare. I corpi delle donne sono sempre particolarmente lucrativi anche quando si tratta di tecnologia: per la società di consulenza Frost & Sullivan il mercato Femtech potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2025.