Nel 1651 Thomas Hobbes tentò di bandire dal linguaggio politico “l’uso metaforico delle parole”. Il suo tentativo non ebbe successo: le metafore politiche non sono scomparse e anzi si sono moltiplicate al punto che oggi è difficile anche solo rendersi conto di quanto la loro presenza sia pervasiva. Hobbes stesso, del resto, per descrivere lo Stato, si era servito di una formidabile metafora: quella del Leviatano, gigantesco mostro mitologico. Pensare di fare a meno della metafora, in politica come in altri campi, è illusorio per una ragione tanto chiara quanto poco percepita.
La metafora non è (solo) una figura retorica, essa è soprattutto una forma di manifestazione del pensiero, una modalità di comprensione del mondo. Una metafora, una buona metafora, può produrre effetti molto difficili da ottenere con argomentazioni lineari, astratte, prive di immagini e di analogie. Può illuminare un concetto altrimenti troppo oscuro. Può sciogliere un problema intricato. Può svelare un aspetto decisivo, e fino a quel momento trascurato, di una questione fondamentale. La metafora può comunicare ciò che un discorso ordinario rischia talvolta di occultare, anche semplicemente annoiando.
George Lakoff, professore di Linguistica cognitiva a Berkeley e autore del libro Non pensare all’elefante!, è il più importante studioso vivente delle metafore applicate all’indagine teorica e alla pratica della politica. Non si tratta di argomento da accademici; è un tema cruciale per capire come funzionano il mondo e il potere: le metafore – e quelle della politica in particolare – incidono sui sistemi di credenze individuali e collettive e orientano, quando addirittura non determinano, comportamenti e scelte. In altre e più sintetiche parole: le metafore possono creare o comunque trasformare la realtà.
Il nostro modo di ragionare e comunicare è disseminato di metafore, anche se molte sono di uso così comune che nemmeno ci accorgiamo della loro esistenza. Tanto per dire, “disseminato” è una metafora. Il nostro è un linguaggio metaforico e prenderne consapevolezza è un passaggio fondamentale per capire certi meccanismi. A cominciare da quelli della comunicazione politica: quella buona e quella cattiva. Quest’ultima consiste nelle più diverse forme di manipolazione e intossicazione del consenso ed è il nemico dal quale più devono guardarsi oggi le forze progressiste.
Le metafore manipolatorie e tossiche non si contrastano con la loro negazione (che invece le irrobustisce: se dico di non pensare a un elefante è proprio a un elefante che penseranno i miei interlocutori o il mio pubblico), ma con l’elaborazione di altre, diverse metafore, capaci anch’esse di evocare strutture interiori – i frame di Lakoff – e definire diversi quadri di riferimento ideali.
Per non rimanere sul piano della teoria vediamo come Lakoff costruisce un’articolata metafora per proporre un modo alternativo di pensare alle tasse e al dovere di pagarle. Alternativo alla vulgata metaforica delle destre di tutto il mondo che parlano delle tasse come di un furto dello Stato (il concetto del fisco predone che “mette le mani nelle tasche dei cittadini”) e non come l’adempimento di un obbligo di solidarietà: “Pagare le tasse significa fare il proprio dovere, versare la quota di iscrizione per vivere negli Stati Uniti. Se ci iscriviamo a un club o a un circolo qualsiasi paghiamo una quota di iscrizione. Perché? Perché non siamo stati noi a costruire la piscina. E dobbiamo pagarne la manutenzione. Non abbiamo costruito noi il campo da baseball. E qualcuno deve pulirlo. Forse non usiamo il campo da squash, ma comunque dobbiamo pagare la nostra parte. Altrimenti nessuno farà la manutenzione e il circolo andrà in rovina. Quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro Paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il suo paese è un traditore”.
Il fatto che, nel discorso pubblico, prevalga una metafora anziché un’altra, un sistema metaforico piuttosto che un altro, ha conseguenze tanto concrete quanto, ancora, poco comprese. Per capire chi vincerà o chi perderà una competizione politica è necessario – anche se certo non sufficiente – verificare quale dei contendenti è munito dell’armamentario metaforico più adeguato e penetrante.
I progressisti in generale e quelli italiani in particolare non hanno purtroppo – salvo rare eccezioni – la capacità di costruire metafore convincenti e solidamente etiche, come nell’esempio di Lakoff. Nel discorso politico della sinistra italiana sono invece numerosi gli esempi di metafore mal fatte, inefficaci o addirittura controproducenti e, insomma, di inviti fallimentari a non pensare all’elefante.
La comunicazione dei progressisti è normalmente fiacca e perdente perché – per una sorta di pregiudizio ideologico – essi rifiutano di accettare e dunque di praticare alcuni dei concetti che pensatori come Lakoff hanno proposto con grande vigore. Il più importante di tutti è per me il seguente: la verità – da sola – non ci renderà liberi. Dire la verità sul potere non basta. Bisogna inquadrare ogni verità secondo la propria prospettiva, con il proprio linguaggio, con le proprie metafore. È l’unico modo per sconfiggere l’elefante proposto dalla propaganda dei populismi e dei fascismi più o meno mascherati.
Ci vogliono metafore ben fatte, ci vuole un linguaggio di mots-matière – parole concrete – come diceva Simenon. Tutto l’opposto dell’attuale comunicazione dei progressisti, impantanati in discorsi astratti, gergali, incomprensibili.
La sfida per le forze del progresso, in questo periodo complicato, è difficile e implica la capacità (che è anche una tecnica, e va appresa) di sconfiggere le manipolazioni dicendo la verità con efficacia evocativa e dunque persuasiva. Se vi interessa la cosa pubblica, se volete contribuire – anche solo come cittadini consapevoli – a una politica della solidarietà e dei ponti invece che del rancore e dei muri (non ho bisogno di ricordarvi, adesso, che si tratta di metafore), leggete Lakoff, anzi studiatelo e poi mettete in pratica i suoi insegnamenti. Fatelo presto: non c’è tanto tempo a disposizione.