A tenere banco, sui mercati finanziari in frenesia da record, è un dibattito che pareva troncato e sopito: l’inflazione data per dispersa da un decennio è defunta? O si annida, subdola, pronta ad aggredire proditoriamente banche centrali e consumatori? In Eurolandia il tasso annuale di inflazione (al netto di cibo e carburanti) da inizio 2013 oscilla tra lo 0,6% e l’1,5%. Negli Usa è tra l’1,6% e il 2,2% ma comunque entro la soglia di guardia della Fed.
In Giappone, dai primi mesi del 2013, l’indice dei prezzi è aumentato tra lo -0,3% e l’1%, a parte la fiammata (con un massimo del 2,5%) tra il 2014 ed il 2015, dovuta all’aumento delle imposte indirette. Persino in Cina l’inflazione dalla fine del 2011 è stata quasi sempre inchiodata tra l’1,2% e il 2,2%. In definitiva la politica ultra accomodante delle maggiori banche centrali invece di scaricarsi sui prezzi al consumo ha gonfiato i prezzi di azioni e obbligazioni. Quanto potrà durare questo incantesimo di inflazione?
Per rispondere va analizzato cosa comprime i prezzi. L’intensificarsi della globalizzazione ha impedito alle imprese di porre i propri listini al riparo dalla concorrenza internazionale e ai lavoratori di richiedere aumenti salariali consistenti. Peraltro con l’irrompere impetuoso delle vendite online ormai si possono confrontare i prezzi dall’Alaska alla Tasmania in pochi secondi. Questo vale per i consumatori finali ma soprattutto per le catene produttive globali. Se un fornitore non mantiene standard elevati di efficienza, viene rimpiazzato in pochi mesi. In definitiva, aumenti salariali e di prezzi avulsi dall’incremento di produttività e dalla competizione globale sono preclusi. Seppure un’azienda li concedesse sarebbe costretta a chiudere o a trasferire la produzione altrove.
Quindi approntiamo il funerale dell’inflazione? Per quanto Fed e altre banche centrali amino recitare il De profundis, esistono segnali che il Nosferatu dei prezzi non trova pace eterna. Dopo anni di crescita, ora le buste paga nei Paesi emergenti tendono ad allinearsi a quelle dei Paesi avanzati. Rimangono alcune aree marginali con salari dickensiani, tipo Vietnam, Kenya o Bangla Desh.
L’epicentro della svolta sono gli Usa. Con la disoccupazione a livelli minimi per attirare lavoratori (o non farseli sfuggire) le imprese allargano i cordoni della borsa. L’avvisaglia è arrivata dai primi bilanci trimestrali del 2019 redatti dalle imprese nell’S&P500. In dieci degli 11 settori industriali i margini di profitto sono diminuiti rispetto a un anno fa. Le relazioni hanno citato come causa prima l’aumento del costo del lavoro, oltre all’aumento delle materie prime, altro segnale foriero di inflazione. Se questo fenomeno dovesse consolidarsi nel corso del 2019, i banchieri centrali e i mercati finanziari si risveglierebbero bruscamente dal placido sonno.