Nell’ultima legislatura la Commissione Moro 2 è arrivata a importanti acquisizioni documentali che smentiscono la ricostruzione fatta nell’arco di 40 anni sul più grave delitto politico compiuto in Italia. Non sappiamo ancora con certezza chi ha sparato in via Fani, in quale prigione (o prigioni) Moro sia stato detenuto e neppure chi lo ha materialmente ucciso. Sulla base di nuovi elementi Rita Di Giovacchino nel suo “Libro Nero della Repubblica”, scritto 15 anni fa ma di nuovo in libreria arricchito da rivelazioni inedite, chiude il cerchio di una lunga inchiesta su quanto accaduto negli ultimi giorni del sequestro quando, sembra ormai certo, i brigatisti ormai accerchiati avevano ceduto l’Ostaggio ad altre Entità e Moro fu trasferito in una prigione nei pressi del Ghetto dove i protagonisti a volto coperto hanno giocato l’ultima tragica partita.
A lungo è stata data la caccia a una prigione nel Ghetto di Roma, l’ultimo domicilio di Aldo Moro, che secondo una vecchia perizia del colonnello del Ros Massimo Giraudo dovrebbe essere distante non più di 50 metri da dove il suo corpo è stato ritrovato all’interno della Renault rossa, in via Caetani. Sulla vettura c’erano filamenti tessili provenienti dai magazzini dei negozi di tessuti che affacciano su piazzetta Mattei che, questo il ragionamento, in un percorso più lungo si sarebbero distaccati dalla carrozzeria volatilizzandosi. A credere più di ogni altro a quest’ipotesi fu il giudice Ferdinando Imposimato che a lungo si è aggirato nelle stradine attorno a piazza Argentina, accompagnato da un giovane terrorista toscano, Elfino Mortati, che gli aveva confidato di aver dormito durante il sequestro Moro in un appartamento vicino proprio a piazza Argentina. Ma Elfino non era di Roma e non seppe ritrovare il palazzo che, stando a successive indagini, fu identificato in un appartamento di via Sant’Elena 8, subito escluso come prigione trovandosi al terzo piano di un affollato condominio dotato perfino di portineria.
Ma che si trattasse di una base vicina al quartier generale del sequestro, almeno nell’ultima fase, erano tutti convinti. Il pm Luigi De Ficchy rimase colpito dal passaggio di una lettera di Moro al nipotino: “Ricordi quando ti ho regalato i pompieri spagnoli?”. Ai familiari non risultava che avesse mai fatto un simile dono al bambino e la frase fu interpretata come un messaggio che portò a uno stabile in via dei Pompieri, vecchia sede di un’ambasciata spagnola, alle spalle di via Caetani. All’inizio degli anni Novanta altri indizi hanno nuovamente portato la magistratura nel Ghetto ebraico: le segnalazioni stavolta indicavano palazzo Orsini, della famiglia Rossi di Montelera, un imponente complesso che sorge alle spalle del Teatro Marcello, di fronte all’isola Tiberina. Anche lì c’è un cancello con il “passo carrabile” e due orsi all’ingresso, simbolo della casata. Due orsi e non due leoni, come scriveva Pecorelli, però.
Nel covo di via Gradoli la polizia aveva trovato degli appunti, scritti da Mario Moretti, con il recapito telefonico dell’Immobiliare Savellia, un’agenzia che gestiva i contratti di affitto di residence ed uffici. Tra le carte in possesso di Valerio Morucci fu invece recuperata una piantina topografica di Palazzo Orsini, corredata di tutte le indicazioni utili, dai vari ingressi allo spessore delle mura. Rintracciata dai giornalisti in Svizzera, la contessa Rossi di Montelera si mostrò sorpresa; risultava però un’intercettazione disposta dal consigliere istruttore Cudillo nel marzo 1979. L’indagine fu archiviata, ma è rimasto il sospetto che in quel palazzo potesse esserci la sede di un organismo riservato collegato al sequestro br. A rafforzare tale ipotesi c’è una piantina dei sotterranei che a partire da Palazzo Orsini attraversano Teatro Marcello, dove sono abbozzati in modo schematico cunicoli e ambienti sotto il manto stradale. Sulla sinistra viene indicata una scala “che conduce al primo piano”, accanto compare un ampio salone 30 per 90 (si suppone metri) circondato da colonne, “otto per lato”, c’è infine uno sgabuzzino di due metri quadri, “che non comunica con l’altra stanza”.
Una piantina rudimentale, attribuita da una perizia calligrafica ad Adriana Faranda che non era un architetto ma soprattutto si è sempre detta ignara della prigione tanto da non aver mai saputo neppure di via Montalcini. Fatto è che a partire da Palazzo Caetani il Ghetto è attraversato da sotterranei secolari, scavati su ordine di papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, capostipite della potente famiglia nobiliare.
La presenza di questo disegno in un covo Br fa pensare che i luoghi siano stati presi in considerazione e studiati con cura. Una sera, durante un sopralluogo, qualcuno fotografò Mortati, Imposimato e anche il giudice Priore che si era accodato: la foto fu scattata dall’alto, forse da una sede del Sisde interna a Palazzo Antici Mattei. I tre erano all’angolo tra via Caetani e via de’ Funari. Imposimato lo considerò un avvertimento e le indagini s’interruppero.