È di questi giorni lo spettacolo di una limacciosa partita fra correnti e schieramenti trasversali del Csm per la nomina di capi degli uffici giudiziari. Caotiche trattative, scontri, accordi non sempre limpidi, scambi di posti e favori formano un quadro che purtroppo non è nuovo ma si ripete periodicamente: da quando le correnti (quale più quale meno) hanno perso il ruolo per cui erano nate, di dibattito tra i diversi orientamenti culturali sui temi della giustizia, per trasformarsi in una specie di suk.
Ovviamente non si tratta di “semplici” beghe interne a una corporazione. L’impatto vero e tremendo è sull’indipendenza della magistratura. Quel che Luigi Ferrajoli scriveva con riferimento all’attività dei singoli giudici si può applicare anche al Csm. Vale a dire che – in un caso come nell’altro – si attenta all’indipendenza della magistratura ogni volta che si commette un abuso o si esercitano in modo arbitrario le proprie funzioni. L’equilibrio o l’arroganza, il rispetto o meno per le regole, l’imparzialità o il pregiudizio sono tutti fattori che concorrono a determinare la posizione da assumere verso l’indipendenza della magistratura: difenderla in quanto garanzia del cittadino, oppure avvertirla come il privilegio di un potere odioso e terribile.
Senza dimenticare che la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari è tra i compiti più delicati e impegnativi del Csm. Perché le cariche dirigenziali implicano di fatto competenze paradisciplinari e negli uffici (nevralgici) di procura anche un potere sostanzialmente gerarchico. Mentre possono servire al potere esecutivo per esercitare forme di ingerenza negli affari giudiziari suscettibili in vario modo di turbare la serenità e l’indipendenza dei magistrati componenti i vari uffici. Per cui la scelta dei dirigenti è intrecciata a filo doppio con quel presidio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge che sono appunto l’autonomia e l’indipendenza effettiva della magistratura.
Tanto più in un sistema come il nostro che funziona poco, eppure anche quel poco dà fastidio. Chi attacca la giurisdizione, infatti, spesso chiede “meno”, non “più” giustizia. In particolare per sé e i suoi interessi di bottega. Per cui chi indaga viene accusato di nefandezze varie, mentre chi si defila viene applaudito. Emblematico fra i tanti, al riguardo, è il caso di Nino Di Matteo, da un lato sottoposto a una scorta pesantissima per le minacce di Cosa nostra, dall’altro spesso al centro di attacchi per le coraggiose indagini sui rapporti fra il malaffare e imputati “eccellenti”, anche rappresentanti dello Stato.
Sia ben chiaro: nessun riferimento alla recente querelle per una intervista televisiva sulla strage di Capaci che ha visto Di Matteo in disaccordo con il suo attuale capo, Cafiero de Raho. Un capo di indiscutibile grandezza professionale, come sono indiscutibili le qualità di Di Matteo.
Per cui – confessando il disagio che si prova quando a divergere sono soggetti ugualmente stimati – non si può che formulare l’auspicio di una composizione della querelle che sappia combinare, con i profili formali, quelli che hanno diretta attinenza con la sostanza delle inchieste. Profili, questi, che certamente stanno a cuore sia a Cafiero De Raho che a Di Matteo.