“Vorrei l’ultima relazione sull’uso delle somme del Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto istituito dalla legge 296/2006 (commi 755 ss.). Potreste cortesemente inviarmela?”. La domanda dev’essere stata posta all’interlocutore sbagliato. Il ministero del Tesoro, infatti non si ritiene competente in materia: “La richiesta va fatta all’Inps e al Ministero del Lavoro”, è l’asciutta risposta di un portavoce. Peccato che neanche al dicastero guidato da Luigi Di Maio ne sappiano nulla. “I dati da lei richiesti sono in possesso dell’Inps”, rispondono. Bingo? No, all’istituto di previdenza presieduto da Pasquale Tridico suggeriscono “di rivolgersi per competenza al ministero dell’Economia e delle Finanze in relazione a quanto previsto dalla legge 296/2006”. Conclusione: nessuno sa che fine abbiano fatto i quasi 35 miliardi di euro che l’Inps ha girato allo Stato dal 2007 al 2017 attingendoli dal Fondo di Tesoreria. Quello dove le imprese private con oltre 50 dipendenti sono obbligate a versare le quote di Tfr dei lavoratori che non hanno scelto di depositare il proprio trattamento di fine rapporto in fondi pensione.
Il flusso medio al lordo delle prestazioni erogate, per intenderci, è di oltre 5 miliardi l’anno. Denaro che aveva dei precisi vincoli di investimento. Sia qualitativi che quantitativi. E i ministeri interessati, così come l’Inps sono già stati messi in guardia dalla Corte dei Conti che, in una dettagliata relazione del marzo 2011, aveva espresso severi giudizi e grandi timori sui rischi di un uso sconsiderato di queste grosse quantità di soldi, parlando tra il resto di “prelievo forzoso” ai danni delle imprese private, di “tassa occulta” e di rischio di squilibri per i conti dello Stato a carico delle generazioni future e a danno dei lavoratori veri proprietari dei soldi. Nelle intenzioni del legislatore, lo Stato avrebbe dovuto utilizzare i Tfr depositati per stimolare crescita e occupazione, finanziando infrastrutture attraverso fondi per favorire la crescita o aziende pubbliche come Anas e Ferrovie dello Stato, con precisi tetti di spesa per ogni voce. Ma cosa sia poi successo, non si sa. Nonostante la legge prevedesse anche l’obbligo, per il ministero del Tesoro e quello del Lavoro, di presentare al Parlamento una relazione dettagliata sulla consistenza e l’utilizzo del Fondo entro il 30 settembre di ogni anno. Gli ultimi ad affrontare la questione in modo analitico sono stati appunto i magistrati contabili, che nel 2011 hanno dedicato un’intera deliberazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato proprio all’utilizzo del Tfr depositato dalle imprese presso l’Inps.
L’alt dei giudici contabili: “È un prelievo forzoso”
“La Corte sottolinea il pericolo derivante dall’utilizzazione del fondo per mere finalità di provvista finanziaria: detta pratica potrebbe pregiudicare i futuri equilibri di bilancio e creare problemi di equità intergenerazionale a danno dei futuri contribuenti e percettori dei servizi”, si legge nel documento, che paventa “il concreto rischio di far ricadere sulle future generazioni il possibile sbilanciamento economico del sistema, che non potrà essere colmato, se non attraverso l’inasprimento delle aliquote contributive o del prelievo fiscale”. L’anno prima, la magistratura contabile aveva rilevato come tra il 2007 e il 2009 il ministero dell’Interno avesse utilizzato il denaro raccolto per finanziare la spesa corrente, pagando con il Tfr dei lavoratori gli oneri di ammortamenti dei mutui per i comuni dissestati, la gratuità dei libri di testo e la spesa per i lavoratori socialmente utili dei Comuni di Napoli e Palermo e della Provincia di Napoli. Voci che “non corrispondevano alle finalità delle norme in tema di utilizzazione del Tfr”. Dall’incidente con il Viminale, poi chiuso, a questioni di rilevanza ancora maggiore, il passo è stato breve. Nella sua ricognizione la Corte dei Conti è infatti giunta presto al nocciolo: “L’Amministrazione statale non sta predisponendo alcun meccanismo di reintegrazione del fondo Tfr gestito dall’Inps, in relazione alle somme già prelevate per il triennio 2007-2009 e per quelle dell’anno in corso. Anzi, il contestato meccanismo risulta confermato almeno fino allo scadere del decennio dalla sua introduzione: a fronte delle somme ad oggi prelevate, pari a 15,86 miliardi di euro, sono previsti introiti di analoga natura fino a raggiungere, a tale scadenza, i 30 miliardi complessivi”.
Giulio Tremonti spende, poi cambia la norma
In pratica il dicastero all’epoca guidato da Giulio Tremonti riteneva di poter continuare, almeno fino al 2017, a finanziare i conti pubblici attingendo a fondo perduto dal denaro dei lavoratori depositato temporaneamente presso l’Inps, senza prevedere dei meccanismi di restituzione nel tempo, meno che mai con gli interessi. Anzi, in seguito alle rimostranze della magistratura contabile circa l’uso dei fondi non a norma, è stata la norma ad essere modificata, non l’usanza, con la possibilità di utilizzare il Tfr depositato presso l’Inps anche per sostenere l’equilibrio della gestione sanitaria. Da qui la pesante accusa dei magistrati contabili secondo i quali un “simile prelievo, senza il correlato onere di ricostituzione del fondo, costituisce una operazione di natura espropriativa senza indennizzo o comunque di prelievo fiscale indiretto nei confronti delle categorie interessate a versamenti finalizzati a scopi ben diversi dal sostegno alla finanza pubblica”. Per di più basato su “dati statistici elementari”. Che al contrario, se confermati, dovrebbero “servire a garantire le categorie interessate, attraverso un migliore rendimento di quello attualmente fissato dalla legge. Non vi è nessuna norma in grado di giustificare una utilizzazione delle somme prelevate diversa dalle finalità per le quali datori di lavoro e prestatori le conferiscono”. In altre parole, è il ragionamento, visto che il denaro non è dello Stato ma dei lavoratori o delle aziende, i suoi frutti dovrebbero andare ai lavoratori e alle aziende, non allo Stato. Che per di più se ne serve senza preoccuparsi di doverlo restituire. Purtroppo poi, “il trend economico-finanziario affermato non appare comunque attendibile e sussistono buone ragioni per prevedere esiti molto diversi rispetto a tale previsione”.
Nessuna rendicontazione: l’opacità della politica
Il conto rischia di essere ancora più salato: “La carenza dei dati istruttori e la sottovalutazione di importanti fattori di criticità è idonea a creare squilibri nel tempo, dei quali potrebbero fare le spese i futuri contribuenti e percettori delle prestazioni”, tuonava la Corte. I magistrati quindi fin dal 2011 contestavano “l’assenza di analitica individuazione delle partite di spesa finalizzate con il Tfr”, completando “il criticato percorso di prelievo e utilizzazione della risorsa a scopo di riequilibrio del bilancio statale”, con un “deficit di trasparenza nell’utilizzazione delle risorse”. Non solo. “Si può fin d’ora precisare che alle suddette problematiche, sollevate da questa Corte sulla base di incontrovertibili elementi obiettivi, non è stata data adeguata risposta, anzi le risultanze della presente indagine hanno posto in luce questioni e disfunzioni ancor più complesse di quelle precedentemente accertate”. Mentre “allo stato degli atti si deve ragionevolmente dedurre che a partire dal 2010 questi fondi serviranno semplicemente a finanziare il bilancio confondendosi con le altre entrate correnti dello Stato”. Viste le risposte ricevute, impossibile verificare come sia andata davvero. Quel che è certo è che l’Inps ha continuato a girare allo Stato gli accantonamenti per il Tfr non utilizzati per coprire le prestazioni. Per un totale che a fine 2016 superava i 30 miliardi stimati dal Tesoro di Tremonti. Delle relazioni però non c’è traccia come sottolinea il professor Francesco Vallacqua, docente di Economia e gestione delle Assicurazioni vita e dei fondi pensione presso l’Università Bocconi di Milano. “Vorrei un’analitica descrizione di dove sono andati a finire ogni anno i circa 5 miliardi di euro che dovevano servire per finanziare le infrastrutture come previsto dalla legge 296/06 – spiega a Il Fatto Quotidiano –. Mi andrebbe bene anche se, legittimamente, qualcuno istituzionalmente indicasse che c’erano esigenze più contingenti di spesa corrente e che i soldi sono stati utilizzati per altro. Però aboliamo quella legge che dice che vanno da un’altra parte, altrimenti rimane una norma non rispettata. Intanto sarebbe interessante leggere le relazioni dei vari ministri del Lavoro sul tema”. Peccato che al ministero non ne sappiano niente.