La vicenda dei 42 migranti della nave Sea Watch è stato il tema centrale per giorni nel dibattito pubblico, come in passato per casi analoghi. Ma nel corso del 2019 sono 2500 i migranti arrivati in Italia: la speculazione politica su queste vicende è dunque enorme come la copertura mediatica che serve solo a mantenere alto il coinvolgimento del pubblico su un problema, umanamente drammatico e vergognoso nella gestione, ma del tutto marginale. Sembra anzi che l’attenzione sull’immigrazione sia utile solo per coprire l’altra faccia della medaglia, l’emigrazione dall’Italia: e questo è sì un problema strutturale.
Secondo l’Istat, tra il 2013 e il 2017 oltre 244 mila connazionali con più di 25 anni sono migrati all’estero, di cui il 64%, 156 mila, laureati e diplomati. La tendenza negli anni è in aumento: i laureati italiani che si sono trasferiti all’estero nel 2017 sono stati +4% rispetto al 2016 e +41,8% rispetto al 2013. La migrazione tuttavia non è solo verso l’estero: negli ultimi 20 anni, dice l’Istat, la perdita netta di popolazione nel Sud dovuta ai movimenti interni è stata pari a 1 milione 174mila unità. Il Paese espelle i giovani, soprattutto i più formati.
Com’è possibile che, invece di accanirsi per mesi sulle sorti di 42 disperati, tale migrazione “biblica” non sia al centro dell’attenzione? La politica che ha prodotto questa situazione non ha alcuna idea o volontà per invertire la rotta. Eppure questo è un problema all’ordine del giorno per milioni di cittadini, per chiunque abbia figli che stanno finendo la scuola o l’università, poiché il fardello delle scelte scellerate del passato ricade innanzitutto sulle nuove generazioni.
Il problema non riguarda solo chi va via, ma purtroppo riguarda anche e soprattutto chi rimane. Il sistema produttivo italiano ha sempre meno bisogno di lavoro qualificato, ma predilige lavoratori con bassa istruzione tra loro intercambiabili e facilmente sostituibili: è lo specchio dell’arretramento tecnologico e produttivo del Paese che è stato anche il motore delle oscene riforme della scuola e dell’università nell’ultimo ventennio. Il concorsone per “navigator” ha da poco fornito uno spaccato inquietante sulla situazione del lavoro giovanile: 70mila laureati a contendersi un percorso lavorativo incerto e precario. Questo concorso è, infatti, la cartina di tornasole che dimostra come chi ha investito tempo, fatica e risorse nella propria istruzione non ha avuto e non ha ancora le opportunità al livello della propria formazione.
Se questo è un problema drammatico per i singoli, diventa un’emorragia di competenze e opportunità per il Paese. La “generazione del trolley”, persone che vanno di concorso in concorso e di lavoro precario in lavoro precario con una valigetta dove portare la propria vita, dovrebbe destare un allarme sociale enorme ma, come per l’emigrazione, non è all’ordine del giorno della politica.
Il taglio alle politiche di formazione avvenuto dal 2008 ha prodotto un calo del 20% degli immatricolati, l’Italia oggi è all’ultimo posto dei Paesi Ocse per percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34 anni, con un valore poco superiore al 20%; dal 2007 i posti di dottorato banditi si sono ridotti del 43,4%. E malgrado questa situazione disastrosa e preoccupante, pochissimi riescono a trovare un lavoro che sia adatto al grado d’istruzione acquisito e di qui fenomeni come l’emigrazione di massa e la competizione per lavori precari di basso livello.
Questo è il nodo che una forza politica di sinistra dovrebbe imporre come priorità, segnando una forte discontinuità con le politiche fin qui focalizzate sull’abbassamento del costo del lavoro e dei diritti, invece che sulla competizione basata sulla specializzazione tecnologica. Politiche che hanno alimentato il mito delle piccole e medie imprese o di effimere start-up, come motore dell’innovazione, invece che difendere il ruolo uno Stato imprenditore che sia creatore di duraturi nuovi settori tecnologici e mercati.
Questo cambiamento di rotta politica deve essere accompagnato da una discussione per cambiare le regole europee: se non si può parlare di causalità diretta, c’è stata una correlazione tra l’ingresso dell’Italia nell’euro e, per esempio, il crollo della produzione industriale del 25% che ha coinciso con lo smantellamento delle grandi industrie a partecipazione statale e con il cambiamento di obiettivo dall’aumento della produttività e della specializzazione tecnologica a quello dell’abbassamento della qualità e del costo del lavoro. Perché è proprio in questo snodo che la paura dell’immigrazione e il fenomeno della migrazione e del popolo dei trolley trovano la loro sintesi. Avere poca formazione e ancor meno diritti rende le persone più fragili e più facilmente manipolabili attraverso un’informazione e una politica che giocano sull’emozione.