Sono trascorsi solo poco più di quattro mesi. Lo scorso 7 marzo il premier Giuseppe Conte sosteneva che l’analisi costi-benefici della Torino-Lione aveva superato lo “stress test” del giorno prima e giungeva perfino a scusarsi con gli autori per aver dubitato, dopo averne letto i resoconti sulla stampa, della solidità della stessa. Si era dunque convinto che la prosecuzione dell’opera non fosse nell’interesse degli italiani. Qualche giorno fa il contrordine. Ora, grazie al presunto aumento del contributo dell’Ue, “fermarla costa più che completarla”. È falso. Vediamo perché:
1) I soldi dell’Ue sono, ad oggi, una vaga promessa. Nessun impegno giuridico è stato preso. E non ci sarebbe da stupirsi troppo se da Bruxelles, incassato il sì, invece di un assegno più cospicuo giungesse una pernacchia. Intanto, la pelle dei contribuenti è stata venduta. Ad ogni modo, l’eventuale maggiore contributo di Bruxelles non cambia di una virgola la disastrosa valutazione economica dell’opera: sposterebbe eventualmente una parte maggiore dei costi dagli italiani agli europei. Stesso spreco di risorse e maggiore iniquità: a pagare di più sarebbero coloro che, ancor meno di italiani e francesi, beneficeranno dell’opera.
2) I conti per gli italiani resterebbero in rosso anche qualora l’Unione europea contribuisse per il 55% della tratta internazionale e si facesse carico di metà dei costi di quella nazionale. La perdita di ricchezza per l’Italia conseguente alla realizzazione dell’opera è stata stimata pari a 2,8 miliardi. Nella più favorevole delle ipotesi, essa si ridurrebbe a circa 1,6 miliardi. Questo senza mettere nel conto possibili o, meglio, probabili sforamenti dei costi di costruzione che per opere di questo tipo in passato sono stati dell’ordine del 50% del preventivo (il 100% per il tunnel sotto la Manica) e che comporterebbero qualche miliardo di perdita aggiuntiva (per i contribuenti, si intende, non certo per i costruttori).
C’era un modo dignitoso per chiudere la partita. Riconoscere di essere minoranza nel Parlamento e tra gli italiani e, quindi, impossibilitati a fermare la corsa del treno contrastando gli interessi corposi che ne guidano la folle corsa. Al danno si è invece voluta aggiungere la beffa. Politique d’abord, come sempre, come tutti.
D’altra parte, con l’eccezione della Torino-Lione, avversata forse più per ragioni ideologiche che per la sua scarsa utilità, vi è una perfetta omogeneità in tema di investimenti in infrastrutture ferroviarie tra il governo “del cambiamento” e i precedenti esecutivi. Sì a tutto, a prescindere. Sì alla Brescia – Padova, sì alla Napoli – Bari, sì alla alta velocità in Sicilia. Due giorni fa, alla shopping list ereditata da Graziano Delrio, il vicepremier, Luigi Di Maio ha suggerito di aggiungere il collegamento per Matera. E il Cipe ha dato il via libera all’aggiornamento del Contratto di programma di Rfi nel tripudio generale con la contrattualizzazione di 15 miliardi ulteriori rispetto a quanto previsto. Esattamente come Delrio. Il partito unico della spesa pubblica senza alcuna valutazione costi-benefici vince come sempre a mani basse.
Fare i conti non piace a nessun decisore politico. Perché comporta dire dei no. E i no scontentano sempre qualcuno. Scontentano spesso piccoli gruppi di utenti, ma scontentano soprattutto i costruttori e chiunque trae un cospicuo vantaggio individuale ed ha dunque un forte interesse, lecito o meno, a fare pressione perché una spesa sia approvata senza valutazioni. Spesa che però viene suddivisa tra decine di milioni di contribuenti, ognuno dei quali riceve un danno modesto e non ha dunque ragione, se non motivato da un forte spirito civico, a impegnarsi per contrastarla.
Una decisione, per esempio, di distribuire 20.000 euro a 100.000 beneficiati conferisce a ognuno di essi un incentivo pari a 20.000 euro ad adoperarsi perché la decisione venga approvata. Se, d’altro canto, i 2 miliardi di euro – che rappresentano il costo della proposta – vengono ripartiti sull’intera collettività, ognuno dei 60 milioni di italiani ha un incentivo pari a soli 35 euro a opporsi all’approvazione della decisione. Scriveva Vilfredo Pareto nel lontano 1896: “In queste circostanze, l’esito è fuori di dubbio: gli sfruttatori avranno una vittoria schiacciante”. Non si può dire che sia stato un cattivo profeta.