Non ci sono solo i 27 minori non accompagnati che ieri sono sbarcati dalla Open arms. In Italia, da inizio 2019, dice Unhcr, ne sono arrivati 519: in tutto, sono almeno 8.342 quelli presenti a oggi sul territorio. Hanno meno di 18 anni e partono da soli per cercare di salvarsi. Scappano da guerre e povertà, ma non sempre ce la fanno. In Europa, delle oltre 638mila richieste d’asilo relative al 2018, 19.700 venivano da minori soli, provenienti soprattutto da Afghanistan (16%), Eritrea (10%), Pakistan e Siria (7%).
Ho incrociato alcuni dei loro sguardi in un campo allestito a Nord di Atene, tre anni fa.Ho comprato un pacco di pennarelli e un bloc-notes di fogli bianchi. E in ogni conversazione, prima ancora di cominciare, li tiravo fuori. È stato così che, tra i migranti, gli adulti hanno riprodotto pezzi delle loro vite passate, i bambini hanno tracciato con lucidità ogni dettaglio delle tragedie che hanno affrontato. Così se Yassin ha scelto di ricordare la facciata del suo ristorante di falafel ad Aleppo, Rava e Mleka hanno disegnato gli “uomini con la barba” che andavano casa per casa a cercare le persone da uccidere. “Ma tu lo sai com’è fatta una barca che porta in Europa?”, mi hanno chiesto un giorno.
Tra loro c’era anche Mahmud. Nel 2016 è arrivato in Grecia su un gommone dall’Afghanistan, ha 17 anni ed è solo. “Quanto costa? Cinquemila euro? Va bene”, aveva detto. Il suo piano: andare fino in Germania dove lo aspettano il suo migliore amico, il papà e il cugino.
“Non farlo Mahmud, morirai”, gli ripetevano ogni giorno. Lui prende in mano la penna e sul foglio bianco scrive due cifre: 99 e 1. “Sai quante chance avevo di salvarmi dal viaggio che ho fatto dall’Afghanistan a qui? Una. Novantanove le possibilità che io morissi”. Mahmud ha 17 anni e almeno nove vite: otto le ha già consumate. Le braccia incrociate, le spalle forti e gli occhi neri tagliati come da un’accetta.
Nel campo, i bambini corrono con i vestiti sporchi. Kar, 7 anni, si avvinghia a tutte le facce pulite che vede. Alza le braccia da lontano: sembra una resa ma è una strategia di fuga. Resta fermo e si prepara a partire. Non succede mai, allora scende e torna sullo scivolo. Mahmud lo guarda e quella disperazione gli ridà la spinta: “Me ne vado”. Ha l’arroganza di un adolescente, ma la forza di tutte le strade che ha visto lo fa sembrare un vecchio. La vita corre veloce come le nuvole di un porto della Grecia e lui non può accettare di perdere più tempo. Un anno di esistenza vale il rischio di viaggiare? Il rischio di perdere tutto? Tutto sono un paio di scarpe, una maglietta, un paio di pantaloni di ricambio, un cellulare con l’accesso a internet. “Certo che vale”.
Prende la penna e disegna il gommone. “Le donne erano ammassate su un lato, gli uomini sull’altro. Questo sono io. Poi c’era un signore che metteva benzina dentro il motore e uno che stava alla guida. Un capitano si chiama? Un capitano. Il più giovane aveva 15 anni, il più vecchio settanta. Eravamo 85. C’è poco altro da raccontare. È durato un tempo infinito. E io ora lo odio il tempo, non lo voglio più contare, aspettare. Basta. Me ne andrò”.
Lo farà Mahmud. Poi agguanta una palla e improvvisa un cerchio con i bambini. Tirano colpi al cielo. Far succedere le cose nel mezzo del vuoto è la parte più difficile. Oggi pure il pranzo c’è già stato: non accadrà più niente fino a domani. Il resto è attesa e fame. Mahmud ti guarda ancora: “Lo farò, l’ho detto. Perché qui è solo disperazione e indietro non posso tornare. La mia casa? È rossa. Del colore della maglietta di Kar. Mio padre sapeva che era il mio colore preferito e ci ha dipinto tutte le facciate”. Quando ripensa alla sua città, chiude gli occhi e si concentra. Tiene le gambe incrociate e fa prima dei segni nell’aria perché quel disegno non lo può sbagliare.
“Mia mamma? Non la vedo e non la tocco da due anni”. Si alza, batte le mani sui calzoni per togliere la polvere. È la parte della storia che fa più male.