Siccome la confusione regna sovrana, com’è naturale nei preparativi di nozze di due promessi sposi che si insultano da 10 anni, urge un po’ di igiene linguistica.
“Conte-bis”. L’eventuale ritorno del premier uscente non sarebbe un “Conte-bis”, come lo chiamano tutti, ma un “Conte-2”. Il Conte-bis sarebbe un nuovo governo giallo-verde e con qualche ministro rimpastato. Questo invece avrebbe un’altra squadra e una maggioranza diversa (giallo-rosa). Il che è normale in un sistema proporzionale, qual è tornato a essere il nostro. De Gasperi fece 8 governi, 3 col Pci e 5 col centro. I centristi Fanfani e Moro aprirono al Psi e lo stesso Moro al Pci. Andreotti, uomo della destra Dc, guidò il governo della “non sfiducia” con Berlinguer.
“Discontinuità”. In politica non dipende dalle persone, salvo che siano indegne, ma dal programma. Ed è ovvio che quello giallo-rosa sarebbe discontinuo dal giallo-verde. Se M5S e Pd trovassero l’intesa, sarebbe un delitto mandarla a monte perché Zingaretti ritiene Conte un emblema della “continuità” e i 5Stelle no. Fu il M5S a siglare con Salvini il Contratto giallo-verde dopo il no del Pd. Conte, neppure iscritto, arrivò dopo. Da indipendente di area. E come tale si comportò, da premier-mediatore, dando torto ora a Salvini ora a Di Maio. Il Pd, se vuole “discontinuità”, dovrebbe chiederla a tutta la prima linea 5Stelle. Ma allora che senso ha trattare con loro? Meglio dire “voto subito”, almeno si capisce. Senza contare che un governo senza i big della sua maggioranza durerebbe poco.
“Diktat” e “veti”. Finora a imporne alcuni è stato Zingaretti: Conte no (veto), via i decreti Sicurezza (diktat), no al taglio dei parlamentari (diktat, poi caduto). Il M5S è stato ambiguo, non sbarrando le porte alla Lega (almeno pubblicamente: in realtà quel forno è chiuso perché non ha più i voti dei gruppi parlamentari). Ma non ha posto né veti su ministri Pd né diktat su cose da fare o non fare. Come il Pd, ha esposto il suo programma. E, da partito di maggioranza relativa, ha indicato il suo premier: Conte. Una scelta che, se fosse mantenuta e accettata, farebbe onore al Pd, ma anche a Di Maio. Che, come Fico, ha resistito alle profferte di premiership. L’anno scorso rinunciò per non baciare i tacchi a B. come pretendeva Salvini; stavolta perché pensa che Conte sia più adatto a quel ruolo, che meriti la riconferma e che giovi alla compattezza del Movimento. Non è un sacrificio facile, né usuale. Se le cose andassero in questa direzione, si potrebbe persino dire che non tutti i politici – nel M5S e pure nel Pd – pensano solo alla poltrona.