Per spiegare il rapporto tra gli italiani e la politica, specie la politica economica, si sono affermate due tesi. La prima: gli italiani hanno sempre ragione, quindi anche le misure più bislacche, le promesse più clientelari, le diagnosi meno radicate nei numeri sono legittime, perché siamo in democrazia. E in democrazia, come ha detto Davide Casaleggio, “a sbagliare non è mai chi vota”. La seconda tesi è che gli italiani sono analfabeti funzionali che votano contro i loro interessi, manipolati da bulli e demagoghi. Sono due semplificazioni pericolose, che provo a contestare nel libro Sette scomode verità sull’economia italiana (che nessuno vuole guardare in faccia), edito da Utet.
Nel dibattito pubblico italiano parliamo delle cose sbagliate e ci accapigliamo su temi e provvedimenti che affrontano problemi immaginari mentre quelli reali incancreniscono. Appena finito di discutere di una flat tax mai esistita, ecco lo scontro sulla tassa sulle merendine o sul “family act”. Tutto questo non accade perché gli italiani si sono rimbecilliti. Bensì per il rifiuto di riconoscere che la situazione del Paese dipende dalla somma di precise scelte politiche, legittimate dalle elezioni, delle cui ripercussioni non tutti gli elettori sono consapevoli.
Solo se i partiti vengono costretti a confrontarsi sulle questioni serie che stanno portando l’Italia a un declino irreversibile gli elettori potranno scegliere tra ricette alternative. Ma per farlo bisogna riconoscere alcune scomode verità celate dietro consolidati luoghi comuni. Ecco la mia personale selezione.
1. “Lavorare meno, lavorare tutti”
Da dieci anni aspettiamo che il mercato del lavoro torni al livello pre-crisi. All’apparenza ci siamo riusciti, gli occupati sono di nuovo 23,3 milioni e i governi di ogni colore ci martellano con i loro commenti trionfali ai dati mensili dell’Istat e a sinistra piace l’idea di ridurre gli orari di lavoro, per redistribuire fatica e salari. Ma stiamo già applicando il principio “lavorare meno, lavorare tutti”: a parità di occupati, lavoriamo 1,8 miliardi di ore in meno ogni anno rispetto al 2008. Posti di lavoro a tempo pieno sono stati sostituiti da part time imposti, migliaia di lavori ben pagati nell’edilizia sono svaniti, rimpiazzati da altri nei servizi, frammentati e discontinui. Solo in Italia il cambiamento tecnologico spinge lavoratori e imprese in basso senza creare posti di lavoro in cima (programmatori, statistici, ingegneri).
2. “Un nuovo miracolo economico”
I problemi del mercato del lavoro dipendono da quelli della crescita. Politici ed elettori sono in continua attesa di una ripresa che, è chiaro, non arriverà mai: ogni anno produciamo circa 68 miliardi di euro di ricchezza in meno che dieci anni fa. Certe caratteristiche del Paese – arretratezza industriale, piccole imprese, economia sommersa – sono state per una fase una leva competitiva, poi sono diventate una zavorra di cui non riusciamo a liberarci. Perché in questo declino alcuni prosperano.
3.“Studia quello che ti pare, basta che ti piaccia”
La crescita dipende da scelte individuali e collettive. Quelle più importanti riguardano l’istruzione. In molti sono d’accordo con Flavio Briatore: la laurea non serve. Invece studiare aiuta a trovare lavoro e ad avere salari migliori. Ma troppi studenti investono gli anni migliori per acquisire una formazione che non li prepara al mercato del lavoro. Un po’ per colpa delle imprese, troppo piccole per aver bisogno di professionalità sofisticate. Un po’ per colpa degli studenti, prigionieri della cultura del “pezzo di carta” e dell’idea che una formazione generale, soprattutto umanistica, apra tutte le porte. Lo Stato, poi, ha fatto peggio: in piena crisi ha tagliato gli investimenti in istruzione.
4. “Per il bene dei giovani”
I tagli alla scuola non sono un caso: in nessun Paese come in Italia il peso della crisi è stato scaricato sui giovani. Danno e beffa: devono pagare con le loro tasse e i loro contributi anche provvedimenti elettorali a carico dei baby boomers come “quota 100” e viene loro richiesto di approvarli perché “per ogni neo-pensionato verranno assunti tre giovani” (falso). Dal 2008 i giovani si sono impoveriti, gli anziani sono diventati più ricchi e il loro stile di vita è migliorato. Ma i giovani sono pochi e votano meno degli anziani.
5. “È ora di tagliare gli sprechi”
Lo squilibrio tra giovani e vecchi è parte del problema generale con la spesa pubblica. Ogni anno il governo promette di tagliare gli sprechi. In realtà si limita ad aumentare il debito, per finanziare una spesa pubblica che aumenta inesorabile, senza distinzioni tra quella utile e quella clientelare. Perché dietro ogni spreco c’è una famiglia di elettori.
6. “Gli italiani vengono prima dello spread”
Dopo il 2011 c’è chi come Matteo Salvini ha costruito un’intera carriera affermando la supremazia delle esigenze politiche su quelle dei mercati finanziari. Ma il debito pubblico è l’inevitabile conseguenza della nostra continua richiesta allo Stato di aumentare le spese, senza mai preoccuparci della loro efficacia. La storia del nostro debito ci ricorda che non si tratta di una calamità naturale, ma del frutto consapevole e desiderato di una scelta collettiva che rinnoviamo a ogni elezione.
7. “Si evade per sopravvivere”
Dietro la montagna del debito si nasconde lo scandalo dell’evasione fiscale. Che non è soltanto quella delle multinazionali del web, ma anche un fenomeno di massa che condiziona le preferenze elettorali. Gli evasori prosperano perché nessuno li vuole colpire e tutti i partiti cercano i loro voti. Rompere questo patto è necessario per ritrovare un rapporto sano con le tasse e la spesa pubblica. Il primo passo è riconoscere che gli evasori non evadono per sopravvivere a un fisco ostile, ma per sottrarre risorse ai contribuenti onesti.
Dopo il fallimento delle élite con la crisi globale del 2008 (in Europa con quella dell’euro del 2011), siamo entrati nella stagione del populismo. Di fronte ai risultati, la fiducia nei “competenti” è evaporata, come è comprensibile. Passata la fase della protesta che reclamava il potere per l’uomo comune, il contesto sta già cambiando. Con la recessione globale in arrivo e dopo aver sperimentato il fallimento delle ricette nazionaliste (vedi Brexit), cresce una domanda di proposte radicali, ma efficaci e di buon senso. Per discuterne sul serio, però, dobbiamo abbandonare i luoghi comuni e affrontare quelle scomode verità che per troppo tempo non abbiamo voluto sentire.