Quando apre il piccolo sudario, grande quanto un asciugamano, il dottor Mahmoud H. Hassan si copre la faccia con le mani, poi le sbatte sulle ginocchia, in un moto misto di rabbia e rassegnazione, e le porta ancora al viso: “È un neonato, un neonato. Ha solo sette giorni, un neonato”. Non è il primo cadavere che vede. Lui è uno dei medici forensi del Raqqa Civil Council che dall’inizio del 2018 recupera e cerca di identificare le vittime dell’occupazione dello Stato Islamico, in quella che fu la capitale del Califfato, e degli scontri successivi con la coalizione occidentale a guida americana.
A due anni esatti dalla liberazione della città dal controllo dei terroristi, la ripresa delle ostilità tra l’esercito turco, supportato da gruppi del Free Syrian Army, e le Syrian Democratic Forces (Sdf) a prevalenza curda, ha rivitalizzato le cellule terroristiche nascoste in città. Tanto che anche l’esercito governativo di Damasco, ieri, è entrato a Raqqa per frenare l’avanzata dei soldati di Erdogan.
Il dottor Hassan racconta che la squadra ha già rinvenuto oltre 5.200 cadaveri all’interno delle decine di fosse comuni sparse dentro e nei dintorni della città: “Li abbiamo recuperati ovunque – ci racconta mentre è impegnato insieme a un gruppo di colleghi nella riesumazione di cinque corpi in una delle aree di sepoltura improvvisate che sono riusciti a individuare – in fosse comuni come questa o sotto le macerie. Ancora oggi ritroviamo alcuni resti sugli alberi e sui cavi elettrici. Nei primi giorni dopo la liberazione, i cadaveri li recuperavamo in mezzo alla strada”.
Il 17 ottobre 2017, le forze della coalizione hanno ripreso il controllo della città. Ma mentre le prime attività, con le loro insegne colorate, risorgono ai piani terra dei palazzi collassati su loro stessi a causa dei bombardamenti, riportando un po’ di colore e di vita nel cimitero di cemento che è ancora oggi Raqqa, l’incubo del Califfato si ripresenta ogni giorno. Lo fa al calare del sole, quando le cellule dell’Isis sfruttano le tenebre per sferrare nuovi attacchi contro la popolazione e le postazioni militari delle Sdf. Oppure riportando alla memoria i massacri dei jihadisti, quando la città dalle proprie viscere espelle i cadaveri dei suoi abitanti, vittime di due anni di guerra e violenze.
Di corpi innocenti il dottor Hassan ne ha visti a migliaia. Ma a quelli dei bambini, ci dice, non riesce ad abituarsi. Pochi centimetri di fianco alla fossa in cui è stato ritrovato il neonato, spuntano anche quelle della madre e della sorellina: “È una femmina – ci dice aprendo il sudario con i resti della piccola –, si vede dai vestiti. Aveva circa un anno e mezzo, due al massimo”. Indosso porta ancora il pannolino e un vestitino consumato dal tempo passato nella terra nuda. I corpi si trovano ovunque. Come questi, che sono stati interrati sul bordo della strada. Le persone passano a bordo delle proprie motociclette e si fermano ad assistere al recupero delle ennesime vittime della guerra. Hanno il cranio e le ossa fratturate: “Vuol dire che sono morti a causa di un trauma alla testa. Una bomba, un colpo di mortaio o un’auto dello Stato Islamico imbottita di esplosivo”.
Poco distante da qui, il dottore ci porta in una delle più grandi fosse comuni tra le sedici scoperte fino a questo momento, la seconda dopo quella allo stadio cittadino, luogo di torture, esecuzioni e crocifissioni per mano degli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. “Guardate qua – ci dice – questa zona si chiama al-Fikhekha, qui abbiamo ritrovato 815 corpi. Ci abbiamo lavorato per sei mesi e l’abbiamo definitivamente ripulita solo ieri. Qui c’era di tutto. Bambini, donne, combattenti e civili. C’è stata un’esecuzione di massa dello Stato Islamico. Non ci sono solo vittime dei terroristi, però, ma anche civili morti per altre cause, come bombardamenti, mine e altro”. I corpi rimasti per strada sono stati sotterrati in un secondo momento dai chi è sopravvissuto per evitare il diffondersi di epidemie.
Nonostante le migliaia di cadaveri riportati alla luce, le segnalazioni di nuovi ritrovamenti sono continue: “Ci chiamano e ci aspettiamo di trovare 4-5 corpi. Poi ci mettiamo a scavare e scopriamo delle fosse comuni, con decine e decine di cadaveri. Abbiamo già individuato altri luoghi di sepoltura, ma non possiamo ancora accedervi perché non sono stati bonificati dalle mine sparse da Daesh”.
Usciamo dalla città nel primo pomeriggio. Il sole inizia a calare presto e all’imbrunire le cellule di Isis si risvegliano per tornare a seminare il terrore, oggi galvanizzate anche dai nuovi scontri a nord. Attraversando il centro ci chiediamo se sotto quei cumuli di macerie si trovino ancora dei cadaveri, intrappolati da anni sotto il cemento, e se torneranno mai ai loro cari. Un privilegio di cui possono godere solo poche famiglie: “È molto difficile arrivare a un riconoscimento. Ci basiamo soprattutto sugli indumenti, oppure sugli oggetti particolari indossati dalle vittime e che ci vengono descritti dai parenti. Ma la maggior parte di questi cadaveri rimane senza un nome”.