Incontrai Alda Merini nel 1988 al Chimera, lo straordinario bar-libreria che offriva bevande e letture di poeti fino alle due di notte. Da lì, in quegli anni, passavano Aldo Busi, Pier Vittorio Tondelli, Vincenzo Consolo, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi… Il Chimera si trovava in via Cicco Simonetta a Milano, io abitavo vicino e ci andavo anche quattro o cinque sere a settimana. Il locale era diretto da Laura Alunno, che gestiva amabilmente una macedonia di poeti, lettori, piccoli editori, rockettari, sfaccendati e qualche residuo della mala di Porta Genova. In mezzo a quella gioiosa babele una sera Laura mi presentò Alda Merini. Aveva 57 anni.
Era sopravvissuta alla spericolata avventura amorosa con Giorgio Manganelli, lei 16enne, lui 26enne separato in casa con una figlia piccola. Era sopravvissuta ai primi squilibri, quando Manganelli l’aveva accompagnata da Cesare Musatti e da Franco Fornari, a cui rimase molto legata (le aveva insegnato che il manicomio “è come la rena del mare: se entra nella valve di un’ostrica, genera perle”). Poi aveva passato circa 16 anni di internamenti alternati da frequenti ritorni a casa. Era sopravvissuta alla morte del marito Ettore Carniti, un panettiere sposato per sostituire non si sa come Giorgio Manganelli. Aveva quattro figlie, due nate prima dei ricoveri, due durante i ritorni a casa, tutte oramai collocate presso altre famiglie.
Negli anni Ottanta, la Merini lottava per riconquistare le approvazioni che avevano avuto i suoi quattro libri pubblicati prima del manicomio. Nel 1953 Pasolini aveva parlato di Rilke e Trakl per La presenza di Orfeo. Poi Montale, Quasimodo, Ungaretti. Ma erano passati più di vent’anni, e quel mondo era scomparso. Nel 1984 uscì La Terra Santa, un capolavoro di abissi e vertigini, un urlo disperato dalla fossa dei reclusi. Pochi si accorsero dell’importanza di quel libro. Dopo la morte del marito, lei raggiunse a Taranto Michele Pierri, un vecchio medico poeta che aveva conosciuto ai tempi del suo primo libro. Si sposarono. Michele Pierri morì, lei ritornò sul Naviglio cercando di sopravvivere con la reversibilità del primo marito.
È così che Alda Merini cominciò a presentarsi tutte le sere al Chimera, dove Laura le offriva un cappuccino e una fetta di torta. Ma la fame non si placava. A volte mi chiedeva di portarla a mangiare un risotto a mezzanotte. Parlava tenendo sempre la mano davanti alla bocca, non si era ancora abituata alla scomparsa dei suoi denti a causa degli elettroshock. Era vivacissima, ammiccante con i ragazzi, dispettosa con i sostenuti, scontrosa con le donne. Io allora collaboravo alla casa editrice il Melangolo, e le chiesi se avesse qualcosa in prosa, perché noi non facevamo poesia. Mi rispose che aveva un romanzo. Non era vero, ma la sera dopo tornò al Chimera con cinque o sei fogli.
Alcuni erano battuti sul retro di volantini di negozi in liquidazione. Montai i frammenti che mi portava ogni sera e così nacque Delirio amoroso. Il 21 gennaio 1990 uscì la prima mezza pagina del Corriere della Sera su Alda Merini e Delirio amoroso: era a firma di Giovanni Raboni. Il caso venne ripreso da altri giornali. Poi arrivò la prima televisione, Telemontecarlo. Fu per lei l’inizio della popolarità che sarebbe cresciuta in modo vorticoso. Intanto nel 1991 il Chimera aveva chiuso e a me arrivavano regolari telefonate serali: minimo una, massimo quattro. In più c’erano dialoghi surreali al citofono. “Sali”, le dicevo. A volte saliva, altre volte preferiva dissertare al citofono sulla deriva dell’estetica e l’estetica della deriva.
Era stata all’inferno e ne era uscita. Convenzioni, inibizioni, convenienze, ipocrisie: erano tutte cose che aveva visto bruciare tra le fiamme del manicomio. Per usare una locuzione scientifica: se ne fotteva di tutte le regole. Negli anni Novanta i riconoscimenti crescevano, le mancava solo un amore. Marcello Marchesi diceva: “Volete un grande amore? Fatevelo da soli”. Lei si portò in casa un clochard e lo fece diventare il suo amore. Lo chiamava Titano e gli dedicò molte poesie. Fino a quando lui, ancora giovane ma usurato da una vita sotto i ponti, morì.
Alda Merini era una grande provocatrice, irregolare, dispettosa, trasgressiva, capace di ironie fulminanti e politicamente scorrette. Forse per questo oggi piace molto ai giovani. Si lasciava usurare da programmi tv che cavalcavano il caso umano, più che l’originalità delle invenzioni poetiche. Se ne fotteva.
Ricordo una sera. Entrò al Chimera infuriata contro Maria Corti, aveva appena litigato con lei al telefono, anche se la critica era una colonna della sua vita poetica. La Merini si mise sulla porta del locale, teneva in mano un mazzo di fogli e cominciò a distribuirli ai ragazzi che entravano: rigorosamente selezionati tra i maschi piacenti. Allungando ogni foglio diceva: “Lei mi sembra un ragazzo intelligente, tenga, è una mia poesia, gliela regalo, così se la Maria Corti vorrà fare la mia opera omnia dovrà diventare matta”. Una performance vagamente dadaista. Io sciaguratamente ridevo, non sapevo ancora che sarebbe toccato a me curare le sue opere.