Si dice che “la libertà del paziente viene prima di tutto”. Anche, e soprattutto, quando la libertà può arrivare a spingersi al gesto ultimo, ed estremo, di porre fine alla propria sofferenza, gettandosi nel vuoto. Ma questo principio può non valere se si è ricoverati – pur con decisione volontaria – in una struttura medica.
Perché il paziente, specie se presenta disturbi della mente, è una persona che va “protetta”, prima di tutto da se stessa. La decisione, inaspettata, è arrivata una settimana fa. Di domenica mattina, così come di domenica mattina se n’era andata Alessandra. Il giudice di Milano Patrizia Nobile ha ordinato nuove indagini sulla morte di Alessandra Appiano. Smentendo il pubblico ministero che aveva chiesto di archiviare il procedimento penale contro ignoti per omicidio colposo, il gip ha così accolto le istanze di Nanni Delbecchi, marito di Alessandra e nostro collega.
Alessandra Appiano, giornalista e scrittrice molto amata, è morta il 3 giugno 2018, mentre era ricoverata nel reparto Psichiatria 1-Disturbi dell’umore dell’ospedale San Raffaele Villa Turro di Milano. Alessandra quella mattina chiede e ottiene il permesso di andare a prendere un caffè al bar interno alla struttura ospedaliera. Invece esce, indisturbata (non è attivo alcun controllo o presidio di sicurezza all’ingresso). Percorre via Stamira D’Ancona, lo stradone dell’ospedale, e 400 metri più in là sale all’ottavo piano dell’Hotel Ramada. Verrà ritrovata con al polso il braccialetto dei degenti e nel braccio l’agocannula per le flebo. Sarà il marito Nanni a dover informare l’ospedale della scomparsa della moglie, con gli infermieri che cadono dalle nuvole: “Di che cosa si preoccupa? Sua moglie è andata a prendere un caffè, sarà tornata in stanza…”. Ma Alessandra in stanza non tornerà più.
Per il pubblico ministero Maria Letizia Mocciaro e il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, il procedimento è da archiviare: la decisione di ricoverarsi, per Alessandra Appiano, era stata volontaria (e non obbligatoria), la paziente era dunque libera di circolare all’interno della struttura e godeva di permessi per uscire. Ma è proprio questo il presupposto che, invece, viene ribaltato dalla decisione del gip. Sottolinea l’avvocato Lucilla Tassi, che assiste Nanni Delecchi come persona offesa nel procedimento: secondo il giudice, “anche in caso di ricovero volontario, lo psichiatra ha un obbligo di cura e protezione. Perché il depresso è e resta un malato che si affida a una struttura medica come extrema ratio. E pur se in questa materia è ancora molto difficile ottenere dei processi, questa decisione dimostra che c’è una giurisprudenza nuova che si va affermando”. Il riferimento è a una sentenza della Cassazione in cui si è stabilito che “il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto”. Pure i protocolli delle cosiddette “strutture aperte prevedono modalità di protezione e vigilanza”, sottolinea l’avvocato Tassi, “che tengano conto del rispetto della libertà individuale, ma anche della protezione della persona da atti autolesivi”. E il pensiero suicidario, è la letteratura scientifica a dirlo, si manifesta maggiormente proprio nei casi di disturbi della mente come depressione maggiore o sindrome bipolare.
Come il giudice Patrizia Nobile ha affermato, la paziente si è allontanata dalla struttura in condizioni che avrebbero invece dovuto far dubitare della sua lucidità. Il supplemento di indagine, quindi, riguarderà non solo l’ipotesi di omessa vigilanza e l’accertamento di una responsabilità organizzativa della struttura. Ma anche una eventuale “negligenza sul piano della diagnosi e della cura”, spiega l’avvocato Tassi. “Esiste infatti una discordanza tra i dati riportati nella cartella clinica e il diario infiermeristico”, che riferisce invece di una crisi, non segnalata al personale medico, avvenuta l’1 giugno 2018, solo due giorni prima della tragedia. “Come è possibile accordare un permesso di uscita in presenza di tali anomalie?”, si chiede l’avvocato: “Qui c’è stata anche una negligenza dal punto di vista dell’anamnesi e della diagnosi”, come evidenzia la consulenza dello psichiatra Stefano Ferracuti. “La diagnosi della paziente è depressione maggiore e per questo viene curata con farmaci antidepressivi e ansiolitici”, scrive Ferracuti, “ma le anomalie nel suo comportamento potrebbero indicare anche un disturbo bipolare, che andrebbe invece curato con stabilizzanti dell’umore”.
“Alessandra negli ultimi mesi non era più lei”, ha scritto Nanni nel suo racconto-testimonianza, pubblicato su queste pagine il 12 ottobre scorso, “la violenta crisi maniaco-depressiva l’aveva resa irriconoscibile prima di tutti a se stessa. Quale lucidità può avere, di quale volontà può disporre una donna che fugge da un reparto psichiatrico subito dopo aver assunto la terapia, senza alcuna sorveglianza da parte dell’ospedale in cui è ricoverata, e si getta nel vuoto un quarto d’ora dopo aver scritto al marito ‘Un’altra notte difficile, non venire prima delle 12. Baciotti’?”.