“Io Gesù non lo amo”. L’aula magna della Statale di Milano, gremita in ogni fila, restò con il fiato sospeso. Autorità pubbliche e professori, studenti e dottorandi. Era il mattino del 4 dicembre 2015. A parlare era un prete famosissimo a Milano, don Gino Rigoldi. Salito sul palco perché quel giorno a lui e ad altri due preti, don Luigi Ciotti e don Virginio Colmegna, l’Università degli Studi aveva deciso di conferire la laurea ad honorem “per il loro prolungato e straordinario impegno in favore dei diritti dei più deboli, della costruzione di relazioni sociali più eque e dell’educazione alla legalità costituzionale”. Che don Gino non fosse precisamente un conformista, questo lo si sapeva. Ma che potesse avventurarsi in dichiarazioni così imbarazzanti nessuno se lo aspettava. Aveva appena deplorato che al buon cristiano si chieda continuamente di “amare” Cristo. E si era chiesto che fondamento avesse una tale pretesa. Per giungere a quel rifiuto perentorio. Io no.
Il fiato sospeso durò 3–4 secondi. Il tempo sufficiente perché nelle primissime file si sentisse un “ossantocielo che sta succedendo?”. Il tempo che si prese don Gino per precisare i suoi sentimenti. “Io Gesù lo stimo, questo sì, lo stimo immensamente per quel che ha fatto, subito e detto”. Ma perché, si chiese, essere retorici e parlare di amore? Fu un passaggio memorabile, che una volta di più confermò la specialità di quel prete capace di parlare con tutti i potenti della città ma anche di dire i suoi no e i suoi sì in nome degli emarginati e dei “suoi” ragazzi, ovvero tutti quelli in difficoltà.
La prima volta che sentii parlare di lui fu nella seconda metà degli anni settanta. Facevo il supplente all’istituto tecnico Cattaneo, in piazza Vetra. Nel parco di quella piazza nel centro di Milano l’alba lasciava spesso sulle panchine giovanissimi rantolanti di eroina, talora corpi immobili e riversi. Un’anziana insegnante disse dunque un giorno disperata: “Bisogna chiamare don Rigoldi”. Io capii “don Riboldi”, il monsignore di origini brianzole che si stava battendo ad Acerra contro la camorra e i suoi nuovi traffici. Feci una figuraccia. Era un altro.
Seppi così che Milano si era scoperta in pancia questo prete della Provvidenza. Uno che ficcava le mani nella melma della metropoli e metteva la sua fede con gli scarponi al servizio dei tanti giovani trasformati in scarti dalle povertà economiche e morali.
Lo conobbi e fui affascinato dalla sua solidità pratica e generosa, da una disponibilità senza fine a giungere in soccorso altrui, dall’amore (qui sì) che traspariva da ogni sua parola verso i ragazzi che assisteva al Beccaria, il carcere minorile milanese cresciuto nelle lande desolate della periferia ovest. Non c’era occasione in cui non richiamasse i loro diritti, anche nei dibattiti più roventi sulla mafia stragista la sua voce parlava comunque in nome loro, delinquenti per destino. E rimasi conquistato dalla sua capacità di fondare con sublime fantasia cooperative e associazioni attraverso cui dare lavoro, in Italia e all’estero, a quei ragazzi. Di passare da “Comunità nuova” al Barrio della Barona. Di mobilitare migliaia di volontari in 20 anni verso i bambini e gli adolescenti dell’Europa dell’est. Per questo d’altronde era arrivata la laurea ad honorem. In “comunicazione pubblica e di impresa”: per dire che si era fatto carico di parlare al mondo di quella grande impresa collettiva che, grazie ad accordi, protocolli, convenzioni, restituiva dignità a chi teneva gli occhi bassi e impauriti davanti al futuro. Delle compagnie e cooperative, delle edicole, dei bar di periferia, dei teatri che nei decenni sono fioriti senza sosta sotto le mani di questo re Mida del sociale, diventato nel frattempo padre adottivo di quattro ragazzi.
E sempre per questo l’altra sera la Milano solidale dell’arte e delle professioni si è stretta intorno a lui alla Triennale presieduta da Stefano Boeri, in un evento promosso dalla fondazione “Gino Rigoldi”. Per ripercorrere la lunga strada del “don” attraverso il ricordo di chi dalla musica, dalla finanza, dalla cultura, dallo sport o dall’informazione, ha scelto di sostenerlo. Stavano insieme il sindaco Giuseppe Sala e Javier Zanetti, Umberto Ambrosoli e Jovanotti. Per festeggiare gli ottant’anni di questo autentico pezzo del welfare cittadino e regalare prestigio, con il luogo e gli ospiti, anche ai ragazzi che gli sono cari. Per dire ciascuno di lui, senza nulla sapere di quel suo intervento fulminante alla Statale, “io lo stimo”.