Nel luglio 2012, quando la Procura di Taranto (guidata allora da un galantuomo) mise sotto sequestro l’Ilva e arrestò Emilio Riva, il problema si pose chiaramente al presidente del Consiglio Mario Monti e al ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera. L’irresponsabilità dei Riva, degni alfieri di un’imprenditoria privata efficiente solo quando c’è da comprarsi giornali o singoli giornalisti, aveva messo fuori mercato (inquinamento a parte) il maggiore impianto siderurgico d’Europa.
C’era da prendere una decisione: o rilanciare l’Ilva whatever it takes, perché un grande paese industriale deve avere il suo acciaio, o chiuderla salvando almeno la salute dei tarantini. Non era complicato: sarebbe bastato chiamare le cose con il loro nome e parlarne. Ma era chiedere troppo a una classe politica di vigliacchi e a una classe imprenditoriale di profittatori. Nessuno si è distaccato dalla losca abitudine di prendere per i fondelli i cittadini, girando intorno al problema per non assumersi una responsabilità. Questo vale per Monti e i suoi successori: Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte uno e due. Vale per Passera e i suoi successori: Flavio Zanonato, Federica Guidi, Carlo Calenda e Luigi Di Maio.
E vale per i politicanti che hanno fatto solo dichiarazioni e i sindacalisti che hanno solo chiesto tavoli. Tutti insieme si sono baloccati con l’idea di far salvare l’Ilva da Arcelor Mittal, leader mondiale di un mercato in crisi nera. Gli è stato spiegato in ogni modo l’ovvio: Arcelor Mittal voleva solo tenere l’Ilva azzoppata in attesa di ammazzarla non appena se ne fosse presentata l’occasione (e la rinomata cultura di governo del M5S gliel’ha offerta con scandalosa solerzia). Fingendo di accapigliarsi sui dettagli, hanno fatto passare sette anni durante i quali, beffa delle beffe, l’Ilva ha continuato a inquinare e uccidere a spese del contribuente.
Se esiste un Dio dell’industria, si meritano tutti l’inferno.