È una situazione tragicomica, se non ci fossero di mezzo 11 mila dipendenti. Il governo oggi chiede che Arcelor Mittal non scappi dall’Ilva ma mantenga gli impegni presi col suo piano industriale. Quel piano, però, non stava in piedi fin dall’inizio, e lo Stato italiano lo sapeva, avendolo bocciato per bocca della sua struttura commissariale ai tempi del governo Gentiloni. Un stroncatura firmata ad aprile 2017 dai tecnici dei tre commissari, Enrico Laghi, Piero Gnudi e Corrado Carrubba chiamati a valutare i due piani industriali: quello della cordata guidata da Mittal e quello di AcciaItalia, il raggruppamento capeggiato da Jindal (con Cdp, Arvedi e Delfin). La bocciatura non fu sufficiente a evitare che il siderurgico fosse aggiudicato al colosso franco indiano poche settimane dopo, grazie a una migliore offerta economica, col suggello del ministero dello Sviluppo guidato da Carlo Calenda.
Nel documento, consegnato il 4 aprile 2017, c’erano tutte le premesse del fallimento odierno. Oggi Mittal dice di andarsene perché la magistratura vuole fargli spegnere l’Altoforno (Afo) 2, dove morì nel 2015 l’operaio Alessandro Morricella (ma non ha fatto nulla per metterlo in sicurezza) e per l’eliminazione dello scudo penale. Al governo ha spiegato però di non reggere una perdita di 2 milioni di euro al giorno e che la crisi del settore l’ha costretto a scendere a 4,5 milioni di tonnellate di acciaio annue prodotte, invece delle 6 promesse. Un dato che in realtà non avrebbero mai potuto raggiungere. Secondo i tecnici gli investimenti previsti erano infatti “incoerenti” con i volumi di produzione dichiarati. Mittal non menzionava il rifacimento dell’Afo2, per cui servivano 115 milioni. La sua “vita tecnica residua” arrivava al massimo alla fine del 2018 e non comparivano neanche i 20 milioni necessari a estenderla. Il riavvio dell’Afo5, invece, era previsto nel 2023, alla fine del piano. “Con questi due altiforni fermi – spiegavano i tecnici – non si possono garantire 6 milioni di tonnellate annue dal 2018 al 2023”, come promesso da Mittal. Anzi, il non rifacimento dell’Afo2 “comporta la mancata produzione di 1,85-2 milioni di tonnellate di acciaio”.
Non era l’unica anomalia. Anche le risorse previste per il rifacimento dell’Afo 1 non risultavano “adeguate”: c’erano 45 milioni di euro per 3 anni, ma – secondo i tecnici – servivano almeno “95 milioni”. L’impatto sull’occupazione di queste due lacune era notevole: “L’assenza di Afo2 – si legge – comporta un esubero di circa 2.000 persone a Taranto rispetto a quanto indicato”. Discorso identico per l’Afo 5 (“riduzione di forza lavoro tra 1800 e 2000 persone”). Numeri che oggi appaiono profetici. Un mese fa Mittal ha fatto sapere al ministero dello Sviluppo di voler ricorre alla cassa integrazione per almeno 4 mila operai (nell’incontro di ieri sono saliti a 5mila). A luglio scorso ha iniziato con i primi 1300 operai.
Il quadro odierno è questo. Mittal non ha avviato il rifacimento di nessun altoforno e neppure la manutenzione, di cui necessita l’Afo 2, vecchio di 13 anni. A breve saranno urgenti anche i lavori sull’Afo 4. Il colosso franco indiano invece continua a produrre con tre altiforni (Afo 1, 2 e 4): viste le condizioni, di fatto lo fa a mezzo servizio, tenendone fermo uno a turno. In questo modo è impossibile raggiungere le 6 milioni di tonnellate annue, anche se il mercato fosse in condizioni migliori. Erano cifre irrealizzabili con gli investimenti promessi.
La lista di bocciature, però, non riguarda solo gli Altiforni ma tutta la strategia industriale. Il piano, ad esempio, non prevedeva la “riattivazione della linea di produzione dei tubi”. E questo scenario, si legge, “non è compatibile con i livelli di produzione di acciai di elevata qualità dichiarati”. Il piano di Mittal, peraltro, prevedeva di aumentare la produzione importando “bramme” da fuori per poi laminarle all’Ilva. Secondo i tecnici, però, questo avrebbe “compresso la marginalità (i profitti, ndr) che è data appunto dal produrre bramme, non dalla loro rilaminazione”. Il siderurgico non sarebbe mai stato autonomo “dipendendo funzionalmente per più del 25-30% da bramme e coils (bobine, ndr) prodotte da terzi”. Questo spiega perché, nel piano gli esuberi crescevano al salire della produzione (l’obiettivo finale era 8,5 milioni di tonnellate annue).
Mittal usciva male nel giudizio anche sul piano ambientale. “È coerente con quello del ministero dell’Ambiente – si legge – ma senza miglioramenti”. Tutte le tecnologie proposte puntavano “ad abbattere l’emissione di anidride carbonica, un aspetto importante ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone”. Giudizi diversi per i piani di Acciaitalia (Jindal& Co.) verso cui i tecnici non sollevavano appunti critici rilevanti. Sul piano dei progetti industriali, insomma, non ci sarebbe stata storia. Acciaitalia, però, si suicidò offrendo 600 milioni in meno dei rivali, guidati all’epoca da Lucia Morselli. La manager scelta oggi da Mittal per chiudere l’Ilva.