I magistrati che celebrano processi di mafia nei territori endemicamente infestati dalle rispettive organizzazioni criminali, sono (o sono stati fino a pochissimo tempo fa) come squadre che giocano in trasferta. Non godono del favore della gente: le realtà territoriali in cui operano cosa nostra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e camorra sono tendenzialmente più vicine a esse che ai rappresentanti dello Stato.
Al contrario, le autorità giudiziarie che si sono trovate a fare indagini e celebrare processi di mafia dove questa si è insediata in epoche recenti e solo per ragioni di sfruttamento delle risorse economiche (Lombardia, Toscana, Piemonte, Liguria) potevano godere dell’appoggio dell’opinione pubblica, quindi giocavamo in casa, in campo amico. È una differenza non di poco conto, che attiene alla natura stessa delle organizzazioni mafiose più antiche. Cosa Nostra siciliana, per esempio, ha da sempre esercitato sul territorio una pretesa di dominio assoluto ed esclusivo, ponendosi (verso le popolazioni residenti) come l’unica autorità legittimata a esercitare il potere, naturalmente con gli strumenti della violenza e della minaccia diffusi, al punto da produrre quell’intimidazione ambientale che ha a sua volta prodotto la sottomissione di larga parte della popolazione.
Tutto ciò non emerge, per fortuna, nei territori di “conquista” ove non si riscontrano fenomeni di radicamento territoriale e di dominio in alternativa e in contrasto con la sovranità statale. A causa della straordinaria forza del vincolo associativo e dell’obbligatorietà della fedeltà all’organizzazione e soprattutto del favore ambientale di cui, purtroppo, ancora la mafia gode, i capi che soffrono o hanno sofferto lunghi periodi di detenzione vengono attesi nei luoghi di origine con trepidazione, perché sono considerati come i depositari del carisma e del reale potere di dominio e controllo del territorio. Non molto tempo addietro si era diffusa, con qualche anticipo, la notizia della prossima scarcerazione di un importante elemento di una potente famiglia mafiosa, prima condannato all’ergastolo e poi assolto. Aveva sofferto un lungo periodo di carcerazione, era sempre stato un detenuto modello, aveva seguito con diligenza i programmi di recupero.
Purtuttavia dalle intercettazioni che avevamo in corso, nei confronti di altri esponenti della medesima famiglia in attività di servizio, emergeva in maniera inequivocabile che tutti aspettavano il giorno della scarcerazione, per riconoscere al vecchio (ma neanche tanto) boss il ruolo e il posto di comando che gli spettavano di diritto, per aver sopportato il carcere da vero uomo d’onore, senza mai cedere alla tentazione di collaborare per ottenere benefici. Riguardando i numerosi e autorevoli interventi sull’ergastolo ostativo di questi giorni, dopo le due pronunce della Corte europea e della Corte costituzionale, credo che le considerazioni che ho fatto in premessa spieghino perché le maggiori preoccupazioni per le possibili conseguenze dell’allentamento del regime previsto dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario siano state espresse da colleghi che hanno svolto la loro attività nel Mezzogiorno e si sono occupati, in modo esclusivo o prevalente, di processi di mafia. Le diverse opinioni sul tema sono quindi, a mio avviso, il frutto di differenti sensibilità maturate dalle rispettive esperienze professionali e dalle diversità ambientali e geografiche. Personalmente condivido le preoccupazioni espresse da alcuni soprattutto perché, dopo più di 40 anni di esercizio di funzioni requirenti a Palermo, di cui circa 30 esclusivamente trascorsi a occuparmi di indagini e processi di mafia, mi sono convinto dell’irredimibilità del mafioso non collaborante.
Come ho detto, il mafioso non collaborante che esce dal carcere (anche solo per un periodo di permesso in famiglia) è vincolato dall’originario giuramento di fedeltà all’organizzazione che gli impone (pena l’essere considerato un traditore e quindi pena la morte, né più né meno come un collaboratore) di tornare a essere quello che era stato prima della carcerazione: cioè un mafioso in servizio permanente effettivo, senza alcuna possibilità di distacco o di allentamento del vecchio vincolo. Ma credo sia necessario fare un’altra precisazione: la pena dell’ergastolo viene inflitta a fronte di un giudizio di colpevolezza per uno dei delitti ritenuti più gravi dal nostro ordinamento (omicidio, strage) e diventa ergastolo ostativo quando quel delitto è stato commesso nell’ambito di una militanza in un’organizzazione di tipo mafioso. Quindi quando viene riconosciuto come un omicidio o come strage di mafia. Ma quasi tutti i capi delle varie componenti di Cosa Nostra attualmente all’ergastolo ostativo sono stati condannati non per un singolo episodio di omicidio o strage di mafia, ma per numerosissimi episodi. Ci sono mafiosi detenuti che sono stati condannati per due, tre, dieci, venti o anche molti più omicidi di mafia, alcuni anche per molti omicidi e molte stragi di mafia. È chiaro che in sede esecutiva vengono chiamati alla fine a scontare un solo ergastolo, ma è altrettanto chiaro che si sono macchiati di una serie impressionante di quei gravissimi delitti per cui è previsto il massimo della pena. Mi chiedo se sia giusto che chi ha subito numerose condanne da ergastolo possa essere trattato alla stesso modo di chi si è macchiato di un solo episodio.
Se si scorrono i certificati del casellario dei più famigerati capi delle più sanguinarie famiglie di mafia ci si imbatte in numerose pagine che evocano tristemente gli omicidi e le stragi che hanno avuto come vittime esponenti delle istituzioni democratiche impegnati, con diversi ruoli, nel contrasto alle mafie. Concepire la concessione di un qualsiasi beneficio a costoro, senza pretendere in cambio la certezza della totale rivisitazione del loro trascorso criminale, significa annullare irrimediabilmente anni di impegno e di sacrifici di tutti coloro che hanno sempre agito per annientare definitivamente le mafie nel nostro Paese. Di fronte a un’istanza di benefici carcerari, avanzata da uno qualsiasi dei più pericolosi detenuti pluriergastolani, si dovrebbe imporre una inversione dell’onere della prova, che imponga all’interessato l’obbligo di dimostrare, con fatti e comportamenti univoci, che non sia più vincolato dal legame genetico con l’associazione e con i suoi esponenti e che abbia definitivamente reciso tutti i rapporti personali con costoro. Solo così si potrà evitare che il singolo giudice di sorveglianza possa, con un certo margine di serenità, decidere sull’istanza senza essere costretto a basarsi, per la propria decisione, soltanto sulle relazioni degli operatori dell’Uiepe o delle forze dell’ordine o degli uffici giudiziari competenti, che troppo spesso contengono notizie e considerazioni generiche e datate e raramente offrono la reale condizione del detenuto e dell’ambiente in cui ha operato da libero.
Sono convinto che imponendo al detenuto l’obbligo di documentare il proprio definitivo distacco dall’organizzazione mafiosa d’origine, ci si muoverebbe nel solco delle decisioni assunte dalle due Corti e al contempo si acquisirebbero concreti elementi di giudizio per evitare di rimettere in circolazione pericolosissimi criminali nemici giurati dello Stato. Se dunque la questione dovrà essere risolta con un disegno di legge (come il Fatto Quotidiano attivamente sollecita), l’idea dell’inversione dell’onere della prova in capo al detenuto che chiede di accedere ai benefici carcerari possa essere presa in considerazione per trovare un equilibrio tra gli opposti interessi in gioco.
* Sostituto procuratore della Repubblica a Palermo
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