Il Fatto del 7 novembre ha pubblicato una documentatissima inchiesta di Vincenzo Iurillo che racconta di un boom di “dissociazioni” fra i camorristi detenuti. Tema che (è lo stesso Iurillo a rilevarlo) rimanda alla recente sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo.
Da sempre, proprio i detenuti costituiscono un problema complesso per l’intero pianeta mafia. In una intercettazione un boss di Cosa Nostra ammonisce che “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli… di portargli il più rispetto possibile”. Per parte loro i detenuti hanno spesso lanciato segnali di inquietudine e insofferenza. Mafiosi di rango (tra cui i Ganci, i Graviano e Pippo Calò), nel corso di una udienza del “Borsellino ter”, comunicano di avere intrapreso uno sciopero della fame contro il regime carcerario speciale. Leoluca Bagarella legge una lunga dichiarazione contro il 41 bis “a nome di tutti gli altri imputati… stanchi di essere umiliati, strumentalizzati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche” e “presi in giro (con) promesse non… mantenute”. Pietro Aglieri chiede con una lettera “un ampio confronto tra detenuti… per trovare soluzioni intelligenti e concrete che producano dei frutti positivi…”. Una iniziativa finalizzata all’emanazione di nuove norme che consentano, anche ai condannati al carcere a vita, di nutrire qualche speranza di revisione dei processi.
Tutti segnali cui corrisponde il periodico riemergere di iniziative per il riconoscimento legale della “dissociazione” (che significa misure premiali grazie a una dichiarazione di distacco dal clan senza alcuna collaborazione, se non una generica ammissione dei fatti per cui si è stati condannati), da sempre una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi – come dimostra l’inchiesta di Iurillo – giocano le organizzazioni criminali. Un riconoscimento che consentirebbe di sanare la ferita mai chiusa dei boss condannati a pene pesanti fino all’ergastolo, con la prospettiva di intravedere una via d’uscita dal carcere, salvare i propri beni e acquisire nuovamente il proprio ruolo nell’organizzazione contribuendo al suo riconsolidamento.
Nello stesso contesto si inserisce una vicenda raccontata da Alfonso Sabella nel libro autobiografico Cacciatore di mafiosi. Nel maggio 2000 la Dna (Direzione nazionale antimafia), all’esito di colloqui investigativi con 5 detenuti, chiese al ministro della Giustizia Fassino di valutare la possibilità che costoro incontrassero in carcere altri 4 boss al fine di concordare una pubblica dissociazione da Cosa nostra. Nel contempo si chiedeva di valutare – in sede politica – la possibilità di estendere ai mafiosi dissociati benefici simili a quelli già previsti per chi – senza collaborare – si dissociava dal terrorismo. Fassino inoltrò la questione a chi scrive questo articolo (allora capo del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria), che a sua volta interessò Sabella, capo ispettorato del Dap. L’iniziativa fu immediatamente stoppata.
Qualche tempo dopo (secondo governo Berlusconi) a capo del Dap fu nominato il procuratore di Caltanissetta Tinebra. Sabella, rimasto a dirigere l’ispettorato, scoprì che Salvatore Biondino (fedelissimo di Riina) era stato incaricato di trattare nuovamente la dissociazione con lo Stato, ma stavolta per conto di tutte le organizzazioni mafiose: Cosa nostra, Camorra, ’Ndrangheta e Scu (Sacra corona unita, pugliese). Biondino stava cercando di incontrare in carcere gli stessi boss oggetto della richiesta rivolta a Fassino dalla Dna. Sabella (dopo un segnalazione scritta a Tinebra, che il giorno dopo soppresse l’ispettorato) comunicò ogni cosa a Roberto Castelli (nuovo Guardasigilli), illustrandogli il forte interesse delle mafie a ottenere importanti benefici in cambio di una pubblica presa di distanza dall’organizzazione, inutile in quanto esclude ogni forma di collaborazione processuale. Per tutta risposta, l’ingegner Castelli lo “licenziò” dal Dap – struttura dipendente dal ministero – e lo mise a disposizione del Csm.
Ora, anche alla luce di tali significativi “precedenti”, è facile prevedere che la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo potrà obiettivamente prestarsi a iniziative pensate con riferimento ad “aperture” ricollegabili alla dissociazione. Infatti, per l’estensione della possibilità di futuri benefici ai mafiosi ergastolani irriducibili, in quanto non “pentiti” cioè non collaboranti, si richiede l’acquisizione di “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. E di sicuro qualcuno vorrà sostenere che la semplice dissociazione integra detta acquisizione. Così ispirandosi, peraltro, a una sorta di “distacco dalla realtà” per quanto riguarda gli scopi – chiaramente emergenti dalla storia della mafia – che con la dissociazione si vogliono ottenere, ben al di là della mera apparenza: trattandosi di un atteggiamento fortemente ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan.
Una realtà che non è consentito ignorare a cuor leggero e che – in ogni caso – rappresenta un altro ottimo motivo per aderire all’appello che il Fatto ha lanciato il 31 ottobre affinché il Parlamento approvi, per decreto o per legge (sperabilmente all’unanimità), una norma che impedisca ai mafiosi di “truffare lo Stato (…) ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli”.