Se leggete giornali di carta, non siete tipi da Tik Tok, la piattaforma che propone a ciclo continuo brevi video simili alle storie di Instagram. Ma l’ascesa di questo nuovo social network – 750 milioni di download in meno di 12 mesi – segna un punto di non ritorno. Ci siamo abituati in questi anni a fare appello al senso di responsabilità di Facebook, Google e Twitter per contrastare propaganda d’odio, fake news e interferenze nelle elezioni. Ora a decidere cosa si può pubblicare e cosa condividere è una società cinese così sensibile alle esigenze del Partito comunista che, ha rivelato il Guardian, censura i video sul massacro di piazza Tienanmen. Nessuno ha protestato quando nel 2017 ByteDance, azienda cinese con sette anni di vita, ha comprato per 800 milioni la piattaforma dove i ragazzini cantavano in playback, Musical.ly.
Due anni dopo quella operazione ci impartisce due lezioni.
Primo: la Cina dimostra che proteggendo il mercato interno dallo strapotere delle piattaforme digitali americane, si possono sviluppare dei competitor in grado di far tremare anche Facebook. Avrebbe potuto farlo – e forse può ancora farlo – anche l’Europa.
Secondo: in questi anni ci siamo raccontati la favola del monopolista buono, di Google che ha il motto “non fare del male” e di Mark Zuckerberg che vuole connettere il mondo in un grande abbraccio. Abbiamo lasciato a queste piattaforme la gestione di informazioni strategiche e abbiamo privatizzato le infrastrutture della democrazia. Ora una società cinese pretende di giocare secondo le stesse regole: alzi la mano chi è sereno sapendo che quasi un miliardo di ragazzini ha nel cellulare una app che accede ad audio, video, geolocalizzazione e contatti e che risponde a direttive politiche di un governo autoritario. Altro che Huawei.
Se non vogliamo che Tik Tok giochi secondo le regole, l’unica soluzione è cambiare le regole. E, in un colpo solo, fermare l’ascesa cinese e togliere a Zuckerberg e soci il potere di cui abusano da un decennio.