“Per la giustizia italiana la morte di mia figlia non è esistita”. Bruno Rossi è uno storico leader dei portuali genovesi, da tutta la vita si batte per i diritti degli altri, ma il 28 novembre per la prima volta ha avuto la tentazione di arrendersi: la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato la prescrizione nel processo per la morte della ventenne genovese. Otto anni e quattro mesi dopo che è precipitata dal terrazzo di un albergo di Palma di Maiorca.
Secondo i magistrati di primo grado Martina era caduta cercando disperatamente di sottrarsi a un tentativo di violenza sessuale. Due ragazzi di Arezzo, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, erano stati condannati per tentata violenza sessuale di gruppo e morte come conseguenza di altro reato (sei anni ciascuno, tre per ogni reato). Ma ieri la seconda accusa è caduta sotto la tagliola della prescrizione. “Resta in piedi soltanto la tentata violenza sessuale di gruppo, ma è ormai certo che quei due imputati non faranno un giorno di carcere”, sussurra Franca Murialdo, la mamma di Martina. Certo, potrebbe essere confermata la condanna per il solo reato rimasto (la violenza sessuale di gruppo che ha termini di prescrizione più lunghi), ma con tre anni di condanna in Italia non si va in galera. Ma ai due imputati potrebbe andare perfino meglio: “Ieri la corte d’appello di Firenze ha rinviato il processo a dopo l’estate 2020, è incredibile”, allarga le braccia Bruno.
Se la violenza sessuale di gruppo fosse derubricata in violenza semplice ecco che anche il secondo reato sarebbe prescritto. Ovviamente, poi resta l’ipotesi che siano assolti. Una cosa è certa: l’unica risposta che la giustizia italiana ha saputo dare per la morte di Martina è la prescrizione. Colpa della lentezza delle indagini spagnole: “In un attimo si sono convinti di aver trovato la soluzione: suicidio. Ma per trasmettere i documenti ai pm italiani ci hanno messo anni”, sospira Franca.
Dal 2013 le autorità italiane hanno cominciato un’indagine resa complessa dal tempo trascorso, dalla distanza e, secondo i giudici di primo grado, da reticenze e dichiarazioni false. Nella sentenza di primo grado un punto della ricostruzione dei protagonisti viene giudicato “non verosimile, né in alcun modo credibile”. Non solo: nelle intercettazioni dell’indagine c’è un compagno degli accusati che sostiene di aver “svignato” le domande della polizia e agli agenti risponde con 47 “non ricordo”. A convincere i magistrati che si sia trattato di una tentata violenza ci sono diversi elementi: secondo i periti, la traiettoria seguita dal corpo di Martina nella caduta è incompatibile con un gesto volontario. Ancora: sul corpo di Martina non erano stati trovati nè i pantaloni, né le ciabatte che indossava quella sera. Secondo i magistrati, una conferma arriverebbe anche dai graffi evidenti presenti sul collo di Albertoni. Il ragazzo aveva sostenuto che “Martina era impazzita e gli era saltata addosso urlando frasi senza senso”. I magistrati di primo grado non gli avevano creduto: “Ha sostenuto che Martina fosse “impazzita… perché doveva trovare una spiegazione ai graffi sul collo”, hanno scritto nella sentenza. Martina non solo morta, ma anche descritta da qualcuno come una pazza, forse sotto effetto di farmaci o di droghe.
Tutto falso, hanno detto i giudici di primo grado: “Non soffriva di patologie psichiatriche, non assumeva psicofarmaci, non era in cura da psicologi”.
Franca, assistita dall’avvocato Stefano Savi, ieri non si dava pace: “Speravo almeno di avere giustizia. Invece chi ha provocato la morte di mia figlia non sconterà un giorno di pena, mentre per me la vita è diventata un ergastolo di dolore. Fine pena mai”.