Già un anno fa, la legge “Spazzacorrotti” aveva previsto il blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado. Come stabilito, la norma è entrata in vigore il 1° gennaio 2020, ma dopo 12 mesi di “moratoria” e di sostanziale disinteresse si è scatenato ora un veemente dibattito. Che però presenta tutti i sintomi di una malattia ricorrente nel nostro Paese. Quella che porta a riconoscere in teoria l’insostenibilità di determinate situazioni, per poi tenerle ostinatamente fuori del proprio raggio di azione ogni volta che si tratti di porvi concretamente rimedio.
Chi non ricorda – febbraio 2015 – lo sdegno e la promessa unanimi di introdurre una nuova disciplina proprio sulla prescrizione? La Cassazione aveva annullato senza rinvio le condanne inflitte dalla magistratura di Torino in primo e secondo grado nel processo per i danni provocati dall’amianto Eternit, dichiarando l’estinzione del reato di “disastro” per intervenuta prescrizione. La motivazione era che il decorso della prescrizione comincia con la consumazione del reato, che non può protrarsi oltre il momento in cui la chiusura degli stabilimenti (giugno 1986) aveva comportato la fine delle emissioni di polveri e residui della lavorazione dell’amianto. Nonostante che, dopo tale chiusura, ancora per molti anni si fosse dovuta registrare una terribile epidemia di morti e malattie causate proprio da quelle emissioni. La sentenza della Cassazione fu rubricata sotto la voce summum jus, summa iniuria e fu tutto un fiorire di giuramenti solenni per ridurre in futuro le possibili ingiurie. Per esempio fissando il decorso della prescrizione (come in altri ordinamenti) non dal momento della consumazione del reato, ma da quello della sua scoperta. Ma sono trascorsi cinque anni e tutto è rimasto come allora.
Sul tema specifico del dibattito in atto, preliminare a ogni altra è la considerazione che in Italia si producono centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che ovunque funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a concludere, da noi è finito per strutturarsi come fenomeno assolutamente patologico. Nel senso che da misura circoscritta a pochi casi limite, che il troppo tempo trascorso rende non più conveniente trattare, la prescrizione si è trasformata in una voragine gigantesca che inghiotte senza ritorno un’enormità di processi. E in tutti questi casi invece che giustizia si ha il suo opposto: denegata giustizia, per le vittime come per i presunti responsabili.
Una delle ragioni di questa anomalia sta nel fatto che in tutti i Paesi europei (salvo la Grecia) la prescrizione si interrompe definitivamente o con il rinvio a giudizio o con la sentenza di primo grado. In Italia invece – prima della riforma del 1° gennaio – non c’era alcun blocco definitivo, ma solo sospensioni temporanee. Erano diffuse, pressanti e autorevoli le sollecitazioni affinché il nostro Paese si allineasse al resto d’Europa. Ma, di nuovo, ecco lo scarto fra teoria e azione, perché molti di coloro che erano favorevoli al blocco definitivo oggi invece (a fronte di un inizio di esecuzione concreta) fanno marcia indietro.
Di “pentiti” se ne trovano un po’ dovunque, fra i magistrati, i giuristi, i politici e i pubblicisti (solo la classe forense era ed è rimasta ostile in modo tetragono allo stop). E la polemica viene sempre più assumendo toni da curva ultrà, con l’impiego di slogan tipo orrore, bomba atomica, ergastolo processuale, macigno sullo Stato di diritto e via salmodiando.
L’argomento principale contro la nuova prescrizione è che senza una congrua accelerazione dei processi avrebbe effetti nefasti: dopo la sentenza di primo grado si aprirebbe la prospettiva di una pendenza perpetua dei processi, non essendo più previsto un termine entro cui debbano essere conclusi, con grave pregiudizio per tutte le parti in causa. Ora, è vero che alcuni processi potrebbero restare pendenti in appello per un tempo più lungo, ma il rischio è circoscritto ad alcuni casi soltanto e certamente non riguarda “tutti” i processi, come invece cercano di far credere le prèfiche che parlano all’ingrosso di processi destinati a “durare all’infinito”.
Si tratta comunque di una eventualità che potrà essere adeguatamente “governata” operando sui margini di miglioramento dell’organizzazione del lavoro in appello, fase in cui si registra il “record” di durata del processo: 749 giorni – secondo una statistica del Sole 24 Ore – quasi il 48% dei 1.586 complessivi, calcolati tenendo conto anche dei tempi di procura, tribunale e Cassazione. Tale eventualità, inoltre, sarà ampiamente bilanciata dall’azzeramento dei casi in cui, con la prescrizione, la giustizia deve riconoscere il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità. E ciò con riferimento ai processi che sono arrivati al vaglio del tribunale, di regola quelli di maggior rilievo, per i quali appunto si pone con più intensità il problema di evitare un default dello Stato.
Quanto all’accelerazione del processo, siamo alle solite. Tutti pronti a chiederla in teoria, per poi rivelarsi – in pratica – timidi, restii o di fatto contrari. In altre parole, tutti gridano di volere “più giustizia”, ma poi molti operano come se l’obiettivo fosse “meno giustizia”, quanto meno per sé e per i propri sodali. Sicché la durata interminabile dei processi è funzionale alla tutela di determinati interessi, quelli in capo ai soggetti cui il controllo di legalità dà l’orticaria. Sono i “galantuomini” a prescindere, cioè le persone giudicate comunque “perbene” in base al censo o alla collocazione sociale, per le quali la “vecchia” prescrizione ha avuto un ruolo decisivo fino a determinare una grave asimmetria nel sistema.
I “galantuomini” possono contare su difensori costosi e agguerriti in grado di sfruttare l’opportunità di eccezioni d’ogni tipo, generosamente offerta da una procedura malandata. Per loro, in pratica, il processo può ridursi soprattutto ad attendere che il tempo si sostituisca al giudice nel definirlo con la prescrizione che tutto cancella. Mentre per gli altri cittadini, quelli “comuni”, il processo – per quanto di durata biblica – riesce più spesso a concludersi, segnando vita, interessi e relazioni delle persone.
La prescrizione come congegnata prima della riforma è stata dunque (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro di un sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolve nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove in realtà è la prescrizione infinita (senza stop definitivo) che fa durare all’infinito certi processi. Ciò dovrebbe preoccupare sul versante costituzionale della ragionevole durata dei processi anche coloro che si pongono questo problema per la riforma della prescrizione, tanto più che il doppio processo costituisce di per sé un ossimoro costituzionale davvero insostenibile.
In ogni caso, gli effetti della nuova prescrizione si produrranno soltanto tra qualche anno. C’è tutto il tempo per modificare il processo accelerandolo. Anzi, il timore (peraltro poco consistente) di effetti nefasti dovrebbe spingere tutti a utilizzare seriamente questo tempo per interventi che sono comunque necessari. Anche per ridurre sensibilmente il gran numero di prescrizioni che altrimenti continuerà a verificarsi in procura e in tribunale. Purché si guarisca – alla buon’ora – dalla malattia dello scarto fra mera teorizzazione e traduzione in cifra operativa di quanto serve per una moderna giustizia giusta.