Buon anno da Bill Gates: nei giorni scorsi, il cofondatore dell’azienda tecnologica Microsoft, ovvero la seconda persona più ricca al mondo, ha animato ancora una volta il dibattito statunitense e mondiale sulla ricchezza con una proposta che nell’immaginario comune ha dell’incredibile. Lui e i suoi colleghi miliardari dovrebbero, secondo Gates – che già ha più volte detto che non lascerà tutta la sua fortuna ai figli – pagare tasse più elevate. In un post di fine anno pubblicato sul suo sito personale ha detto di essere favorevole a un sistema fiscale in cui “se hai più soldi, paghi una percentuale più alta di tasse”. E ha aggiunto, includendo anche la moglie: “Penso che i ricchi dovrebbero pagare più di quanto fanno, e questo include Melinda e me”. Entrambi, va detto, già devolvono svariati miliardi in beneficenza e sono tacciati spesso di farlo proprio per pulirsi la coscienza e perché le fondazioni godono di agevolazioni fiscali.
Le dichiarazioni sono in linea con le posizioni dei candidati alla Casa Bianca Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Gates ha evidenziato il crescente divario di ricchezza tra i redditi più alti e quelli più bassi negli Usa, ha parlato di un “sistema ingiusto” creato “per favorire la ricchezza rispetto al lavoro”. Così, un’idea potrebbe essere “aumentare le tasse sugli ultra-ricchi” e farlo magari tassando le plusvalenze, ovvero i profitti che arrivano dagli investimenti, anche perché “nessuna delle persone più ricche al mondo ha fatto fortuna soltanto con il proprio stipendio”. In questo modo il carico si sposterebbe maggiormente sui ricchi e toglierebbe un po’ di peso dalle tasse sul lavoro. “Oggi il governo degli Stati Uniti dipende in maniera schiacciante dalla tassazione del lavoro – ha scritto –: circa i tre quarti delle sue entrate provengono da imposte su salari e stipendi”. La maggior parte delle persone ottiene quasi tutto il proprio reddito da stipendi, tassati al massimo al 37% “ma i più ricchi di solito ottengono solo una piccola percentuale delle loro entrate da uno stipendio, mentre la quota maggiore proviene da profitti sugli investimenti, come azioni o immobili, tassati al 20% se sono detenuti per più di un anno”. Un manifesto che ripete spesso: tasse statali e locali più giuste, aumento di quelle immobiliari, fine delle scappatoie da cui “molte persone benestanti traggono vantaggio”. Il suo patrimonio netto è aumentato di oltre 50 miliardi di dollari nell’ultimo decennio, arrivando a 108,5 miliardi dai 53 del 2010 secondo le stime di Forbes grazie anche a politiche fiscali favorevoli e all’impennata dei mercati azionari.
Eppure non è il primo ad aver chiesto di pagare di più. Sono stati almeno 17 i miliardari che hanno firmato con lui una lettera aperta ai candidati alle elezioni nei mesi scorsi. Tra questi, Mark Cuban (4,1 miliardi di dollari grazie ai suoi affari), il proprietario della squadra della Nba Dallas Mavericks che aveva già proposto l’introduzione di una tassa per i ricchi con un tweet nel 2017; poi Warren Edward Buffett, il quarto uomo più ricco al mondo con un patrimonio netto di almeno 82 miliardi. E Howard Schultz, ex Ceo della catena di negozi di caffè Starbucks, con un patrimonio netto di 3,8 miliardi di dollari e 37,7 milioni di azioni (circa il 3%) di Starbucks. Abigail Disney, nipote del co-fondatore della Walt Disney Company Roy Disney, aveva addirittura criticato la sua azienda per gli stipendi sproporzionati che elargisce ai ceo. Il suo patrimonio oggi è pari a 120 milioni di dollari. E ancora, Chris Hughes, cofondatore di Facebook; il miliardario George Soros con suo figlio, Alexander, e Nick Hanauer, uno dei primi investitori di Amazon. Mai nessuna dichiarazione è invece arrivata dagli altri ricchi del digitale come Bezos (Amazon) o Zuckerberg (Facebook) o Page (Google).
La polemica è ciclica. A guidarla, nelle ultime settimane, è stata l’analisi degli economisti di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, il loro ultimo libro Il trionfo dell’ingiustizia. I miliardari, secondo le loro stime, nel 2018 hanno destinato a tasse federali, statali e locali il 23 per cento delle loro entrate. L’americano medio, nel frattempo, ha pagato il 28 per cento. “Il sistema fiscale degli Stati Uniti è una gigantesca imposta flat, tranne nella parte superiore, dove è regressiva – hanno scritto Saez e Zucman -. Come gruppo, e sebbene le loro situazioni individuali non siano tutte uguali, i Trump, gli Zuckerberg e i Buffett di questo mondo pagano tasse più basse rispetto agli insegnanti e alle segretarie”.
Chiaramente sono i dati degli economisti che più di tutti, insieme a Piketty, si sono dedicati a questo tipo di studi e parallelamente ce ne sono altri che provano a ridurre il fenomeno della disuguaglianza mettendo in dubbio le stime su cui si basano i dati degli altri. Gli esiti, però, seppur differenti non stravolgono le proporzioni e se poi sono gli stessi miliardari ad ammetterlo, diventa difficile credere che l’estrema disuguaglianza non sia una realtà. “Alcune persone finiscono per fare grandi affari – ha detto Gates –. Io, per esempio, sono stato ricompensato per il lavoro che ho fatto in modo sproporzionato, mentre ci sono tanti che lavorano duramente allo stesso modo e che fanno fatica ad andare avanti”.