È l’alimento dell’infanzia, amato o avversato da chi si preoccupa della salute oltreché del gusto. Fra le motivazioni contrarie al consumo di latte ci sono l’accusa di essere nocivo e di rappresentare un problema per i costi ambientali legati all’allevamento intensivo. Rischi avvalorati da un’inquietante segnalazione: nel latte italiano si possono trovare tracce di farmaci cortisonici, antinfiammatori e antibiotici. Si tratta, va detto, di concentrazioni sotto i limiti fissati dal regolamento Ue, ma non proprio trascurabili quando si tratta di un alimento consumato dall’80% degli italiani, che bevono in media 52 litri di latte all’anno.
A scoprire la presenza di sostanze farmacologiche nel latte fresco o a lunga conservazione, è il Salvagente che, nel nuovo numero in edicola domani, pubblica i risultati dello studio effettuato dalle Università Federico II di Napoli e di Valencia su 56 campioni di latte, integrate dal test condotto dallo stesso mensile su 21 latti comunemente venduti in Italia da Parmalat a Granarolo, da Mila a quelli a marca dei supermercati o dei discount. “È grazie a un nuovo metodo di analisi in grado di quantificare contenuti che ai test ufficiali sarebbero passati inosservati, che – spiega il direttore del Salvagente Riccardo Quintili – abbiamo rilevato la presenza di tre farmaci in 12 campioni su 21: un antibiotico, l’amoxicillina, un cortisonico, il dexamethasone e un antinfiammatorio, il meloxicam. Solo nel latte fresco Lidl – aggiunge – è stata evidenziata contemporaneamente la presenza di tutti e tre i farmaci”. Poi, in quattro latti (Ricca fonte, Esselunga fresco, Carrefour fresco e Parmalat Zymil fresco), sono state rilevate tracce di due farmaci e negli altri cinque campioni c’è solo un farmaco. “Anche se i livelli degli antibiotici riscontrati nel latte sono molto bassi, questo non significa che si possa escludere un rischio per il macrobiota, l’insieme dei microrganismi che popolano il nostro apparato digerente e che svolgono funzioni benefiche”, spiega Ivan Gentile, professore di malattie infettive presso la Federico II.
I farmaci riscontrati sono, infatti, quelli utilizzati in massa negli allevamenti intensivi per guarire la mastite, vale a dire l’infezione alla mammella che colpisce le mucche da latte. Sottoposte a un forte stress produttivo, diventano più sensibili alle infezioni. E spesso si finisce per somministrare un antibiotico anche quando la mastite non ha ancora dato segni evidenti. Questo, però, espone sia gli animali sia chi beve il loro latte a un rischio che si sottovaluta: la resistenza antibiotica. In poche parole, il corpo non reagisce più ai farmaci, dal momento che i ceppi dei batteri si sono trasformati in organismi resistenti. Il decorso risulta così più lungo, aumenta il rischio di complicanze fino ad arrivare a esiti invalidanti e morte.
Tanto che per l’Agenzia europea del farmaco, l’uso di antibiotici negli allevamenti in Italia è 2,5 volte più alto delle media europea. Venti volte maggiore della Svezia. E per l’Istituto Superiore di Sanità (2019), nel nostro Paese la resistenza nei loro confronti rispetto a specie batteriche sotto sorveglianza risulta superiore alla media Ue. Non ci si deve stupire, quindi, se l’Italia – come emerge da uno studio condotto dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, pubblicato sulla rivista medica The Lancet – abbia il più alto numero di morti causate da infezioni resistenti agli antibiotici in Europa: oltre 10.700 decessi sul totale di 33.000. L’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Ue continuano a guardare alla resistenza agli antibiotici come a uno dei fenomeni più preoccupanti per la salute pubblica, con le morti da super-batteri che nel 2050 potrebbero superare quelle da cancro e portare così le spese sanitarie al 2-3% del Pil mondiale ogni anno.
Dal 2017 l’Italia ha avviato un piano d’azione quadriennale contro la resistenza antimicrobica, mentre lo scorso anno è stata introdotta la ricetta elettronica veterinaria per ridurre l’uso di antibiotici senza compromettere la produttività e la salute degli animali. Una sfida comunque complicata. Come spiega il veterinario Enrico Moriconi, “se si volessero allevare le mucche secondo i loro bisogni, un litro di latte costerebbe 4 euro al litro”. Intanto Esselunga, Granarolo e Conad, informate della ricerca, si sono dette disposte a lavorare per limitare il più possibile i residui dei farmaci veterinari negli allevamenti e di conseguenza nel latte.