Gran parte della politica, in Italia, tende ad autoassolversi riducendo il cancro della corruzione sistemica a isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. Un “revival” di tale tendenza è la campagna di rivisitazione del ruolo politico di Bettino Craxi. Molti ne sono i protagonisti e gli obiettivi. Fra questi la magistratura, in particolare Mani Pulite. Come ha osservato Barbara Spinelli su questo giornale, definire Craxi non “latitante” ma “esule” è come invalidare le sentenze, con effetti devastanti sulla legittimità del sistema giudiziario.
Circa 27 anni fa, la stagione di Mani Pulite segnò – per il nostro Paese – un forte recupero di legalità. Sembrava prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Poi invece ebbero il sopravvento l’indifferenza o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cerca di garantire la legalità. Di qui gli attacchi – tra l’altro – alle pretese invasioni di campo dei giudici. Con esiti perversi, perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro una minore fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste. Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine “giustizialismo”. Parola un tempo sconosciuta nel lessico giudiziario; poi introdottavi con la precisa finalità mediatica di diffondere pretestuosamente l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata; ormai adoperata con la stessa intensità dei “tackle” nelle peggiori partite di calcio, fino a farne un cardine della propaganda ingannevole basata sulla ripetizione assillante che alla fine fa sembrare veri anche i falsi grossolani.
Nei confronti della magistratura questa tecnica è stata applicata in modo implacabile da Silvio Berlusconi. Le indagini milanesi sulla corruzione erano per lui “del tutto estranee a uno Stato di diritto, sintomi di faziosità eretta a regime giudiziario e di una gestione accanita e politicizzata della giustizia penale”. A seguire, ci fu la proposta di una Commissione parlamentare d’inchiesta per “accertare se ha operato nel nostro Paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura” (così il portavoce di Forza Italia, on. Bondi). Senza negarsi proteste di piazza contro i giudici “scomodi”, con manifesti osceni tipo “fuori le Br dalle procure”. Portando ai livelli di guardia la compatibilità con le regole di convivenza istituzionale proprie di un sistema democratico.
Oggi – si direbbe – l’insofferenza verso la magistratura registra, dopo la stagione dell’esuberanza (?) berlusconiana, un’inedita declinazione, il cui “bersaglio grosso” è un singolo magistrato: Piercamillo Davigo, il “dottor sottile” di Mani Pulite, componente del Csm, spesso chiamato dai media a intervenire sui problemi della giustizia e del processo, da ultimo il tema della prescrizione. Con un linguaggio non felpato, mai in “giuridichese”, ma chiaro e netto (perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene), Davigo usa prendere posizioni argomentate e graffianti. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ci mancherebbe. Ma gli avvocati sono andati oltre. Quelli di Torino, Lanusei e Reggio Emilia hanno chiesto per Davigo sanzioni disciplinari; quelli di Milano che non possa partecipare alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario di sabato prossimo per la quale è stato designato dal Csm. Il “capo d’accusa” degli avvocati è tuono e tempesta: magistrato “accecato da visioni giustizialiste”, colpevole di “un violentissimo attacco allo Stato di diritto”, che nega i “fondamentali principi costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo penale”.
In realtà quelle di Davigo sono idee e proposte tecniche sempre motivate, non comprimibili nel perimetro di antichi slogan a effetto. In ogni caso, le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio. Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare. Assurdo: come pretendere che i medici non parlino di sanità o i giornalisti di informazione. La speranza, dunque, è che la furia degli avvocati (i “principi” del contraddittorio) si plachi, recuperando le forme di un articolato confronto. Così da respingere ogni atteggiamento che possa essere letto come pericoloso per la libera manifestazione del pensiero.