Al di là delle montagne c’è l’Iraq. Da lì arrivano. Sono stanchi e infreddoliti, ma con il sorriso sul volto perché ce l’hanno fatta ad arrivare. Hanno fame, c’è chi mangia pane, burro e formaggio di capra e chi fa la fila davanti a un furgoncino azzurro dove servono generose porzioni di ash-e reshteh, la zuppa persiana a base di legumi, spaghetti e menta essiccata.
Il tè bollente scorre a ettolitri e, senza più carichi addosso, finalmente le spalle possono riposare. Il contrabbando è sempre esistito nella valle di Howraman, nel Kurdistan iraniano. Coltivare le noci non basta. Ma oggi, con le sanzioni imposte dagli Usa, procurarsi certi prodotti è sempre più difficile e così migliaia di persone si mettono al servizio dei contrabbandieri locali e attraversano le vette del Kùh-e Takht per raggiungere l’Iraq.
Da queste parti li chiamano kulebar, in farsi significa “ciò che si porta sulle spalle”. Sono tutti curdi-iraniani, per lo più trentenni, anche se non mancano ragazzi più giovani e persino settantenni ostinati. La loro giornata lavorativa dura dalle 6 alle 10 ore, dipende dal clima in quota, una tormenta di neve fa perdere tempo e, ai più sfortunati, la vita. In Iraq si mettono in spalla carichi pesanti prima di far ritorno in Persia.
Contrabbandano vestiti, sigarette, medicinali e soprattutto elettrodomestici. C’è chi riesce ad attraversare il confine con quattro televisori al plasma sulle spalle. Le sanzioni hanno reso questi prodotti carissimi. Un cellulare in Iran costa più che in Italia e il Riyal iraniano non ha certo il potere d’acquisto dell’euro. Un tempo il contrabbando veniva duramente represso dall’esercito iraniano. Oggi i pasdaran si girano dall’altra parte. Decine di soldati lungo la strada che collega Sanandaj alla valle di Howraman sono a poche centinaia di metri dalla fila degli sherpa mediorientali e non dicono nulla.
Il peso del blocco economico
Le sanzioni non servono a nulla. Per lo meno non a rovesciare governi ostili, più o meno democratici. Indeboliscono invece i più poveri e rafforzano divisioni ed estremismi. In un mondo sempre più globalizzato, sono dichiarazioni di guerra latenti, oltre che tentativi di colpi di Stato moderni dagli esiti grotteschi.
Cuba resiste al bloqueo da cinquantotto anni. Putin è strategicamente più forte che mai. Maduro, in Venezuela, nasconde i propri errori dietro sanzioni inumane che colpiscono la popolazione. E Assad, nonostante la crisi economica creata da una guerra civile sviluppata in laboratorio e dal solito embargo “a fin di bene”, continua a essere un interlocutore necessario per la stabilità siriana.
Nel 1996 la giornalista Lesley Stahl domandò all’allora ambasciatrice americana all’Onu, Madeleine Albright, se valesse la pena causare la morte di mezzo milione di bambini per via delle sanzioni imposte allo scopo di rovesciare Saddam Hussein. La Albright, che forse proprio per queste posizioni venne promossa segretario di Stato da Bill Clinton, rispose che si trattava di una scelta difficile, ma che sì, ne valeva la pena.
Per destituire Saddam Hussein, però, fu necessaria la seconda guerra del Golfo, un intervento illegale, costruito su prove fasulle. Quante persone – donne, vecchi e bambini – sono state uccise dalla pavidità dell’informazione mainstream?
La Rivoluzione islamica ha appena compiuto 41 anni e da 41 anni l’Iran è sotto sanzioni. Ai tempi dello Scià, la Persia era un grande amico dell’Occidente. Eppure la guardia imperiale e la Savak, i servizi segreti persiani addestrati dal Mossad, compivano atrocità inaudite verso la popolazione. Ma allora nessuno toccava gli interessi delle imprese transnazionali e l’Occidente, al corrente delle violazioni dei diritti umani, sceglieva di guardare altrove. Prima che l’ayatollah Khomeini prendesse il potere, l’establishment iraniano faceva grandi affari con il Primo mondo. Lo Scià acquistava armi e investiva in Europa. L’Iran dava lavoro a migliaia di tecnici americani. Nei quartieri alti di Teheran si pasteggiava a champagne. Fuori dai palazzi, milioni di mostazafin, i diseredati, facevano la fame nelle baraccopoli a sud di Teheran. Ma anche questo non turbava il sonno occidentale.
Il presidente Usa Jimmy Carter passò il Capodanno del ’79 a Teheran insieme allo Scià, Mohammad Reza Pahlavi. In quell’occasione ebbe la malaugurata idea di dire che “l’Iran, grazie alla leadership dello Scià, è un’isola di stabilità in un’area del mondo tra le più irrequiete”.
Poche settimane dopo, lo Scià fu costretto alla fuga, schiacciato da una delle rivoluzione popolari più partecipate del XX secolo. Poi la rivoluzione, come capita spesso, mangiò i suoi figli e la violenza dilagò. Ciononostante, se Khomeini si fosse dimostrato un fervido liberista nessun Paese occidentale avrebbe mai imposto sanzioni. Se il governo islamico avesse continuato a strizzare l’occhio alle compagnie petrolifere straniere, se non avesse nazionalizzato gli impianti di estrazione, le raffinerie e il settore creditizio, nessuno a Washington si sarebbe scandalizzato per gli arresti arbitrari e le purghe dei primi anni della Rivoluzione islamica.
Fuori dal sistema liberista
L’Iran ha avuto il torto di non adeguarsi al sistema liberista e, per un Paese che detiene la quarta riserva mondiale di petrolio e, probabilmente, la prima di gas, ciò non è concesso.
Eppure, nel 2016, è stato raggiunto lo storico accordo sull’uranio arricchito. L’economia iraniana ha iniziato a crescere, l’Alitalia ha intensificato i voli per Teheran. Decine di imprenditori europei hanno iniziato a investire nel Paese. Persino l’ex presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, venne in visita ufficiale in Iran portandosi dietro i manager delle aziende di Stato per firmare una serie di accordi. Il resto è storia recente.
L’8 maggio 2018 Donald Trump ha annunciato l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare (sebbene l’Iran non avesse violato alcun punto del negoziato) e ha imposto nuove sanzioni al Paese obbligando, di fatto, l’Europa ad accettare le condizioni degli Stati Uniti.
L’accordo sul nucleare era stato un bel colpo per l’economia dell’Italia, diventata nel 2018 il primo partner commerciale europeo dell’Iran, mentre l’Eni comprava a prezzi competitivi il petrolio persiano. Le nostre imprese di abbigliamento, cosmetica, arredamento e agroalimentari erano pronte ad aggredire un mercato in piena espansione.
Ma nei primi mesi del 2019 l’interscambio Italia-Iran è crollato del 54%. Trump ha sentenziato e l’Europa ha ubbidito. “L’Iran è una minaccia!”, è stata l’accusa. Ma allora avrebbe dovuto esserlo anche prima, quando Renzi visitò il Paese. “Vengono violati i diritti umani e la donna non è libera”? Ma allora perché facciamo affari con i sauditi? Teheran pare Stoccolma, rispetto a Ryad. Se è vero che l’Iran rifornisce di armi gli huthi in Yemen, non è altrettanto vero che l’Occidente vende armi all’Arabia Saudita che in Yemen ha fatto strage di civili? Il fatto è che i sauditi sono alleati, l’Iran no. I sauditi non sostengono la causa palestinese. L’Iran sì.
Nel 1986, Ronald Reagan affermò che “senza la collaborazione dell’Iran non può esserci una pace durevole in Medio Oriente”. Aveva ragione e ancora oggi vale la stessa cosa.
Ma il Deep State americano davvero vuole la pace in Medio Oriente? L’Arabia Saudita occupa la terza posizione mondiale per spese militari. Dal 2009 a oggi ha aumentato del 30% gli acquisti di armi. Ryad fa spesa soprattutto negli Usa e in Israele. La stabilità mediorientale sarebbe un pericolo per questo business.
Tuttavia il tentativo di isolare e indebolire l’Iran ha un altro obiettivo strategico per gli Usa: sanzionare la nuora affinché la suocera intenda. La suocera è la Cina. L’Iran è uno snodo decisivo per il progetto della Nuova Via della Seta. Ed è un progetto che gli Stati Uniti cercheranno di contrastare in ogni modo se vorranno vincere la guerra del XXI secolo: quella dell’intelligenza artificiale.
Il vero obiettivo è Pechino
Di fronte a questo scenario, l’Europa si comporta da mediocre spettatrice, tra l’altro pagante, quando dovrebbe e potrebbe rappresentare un blocco geopolitico imbattibile, se solo esistesse davvero e non solo nelle teorie strampalate di chi grida “più Europa” difendendo soltanto un club di finanzieri. Sono costoro i veri sicari del sogno europeo, altro che Nigel Farage.
Veli, chador, legge islamica, contrasto del dissenso, manifestazioni anti-governative non consentite. In Occidente, se si parla di Iran, si parla solo di questo. Cose vere, ma che non devono nascondere le motivazioni reali dietro il tentativo di emarginare la Persia.
Anche l’Iran, a parte tutte le critiche fondate, è vittima di fake news. Viene descritto come un Paese sull’orlo della guerra civile, con la fila di persone ai supermercati o alle pompe di benzina. Non è vero nulla. L’Iran ha mille problemi e mille contraddizioni, milioni di persone pretendono condizioni di vita migliori, ma in pochi sognano un collasso del sistema.
Nessuno guarda gli americani come liberatori. Gli iraniani sanno perfettamente come vivono gli afghani e gli iracheni dopo le guerre combattute in nome della democrazia. Gli afghani li conoscono bene. Ne hanno accolti negli ultimi decenni più di due milioni, che adesso a Teheran fanno lavori umili. Puliscono le scale dei palazzi borghesi, lavorano nei parcheggi, fanno i muratori. I più sfortunati raccolgono cartone e ferro dai cassonetti.
Gli iraniani conoscono bene anche gli iracheni. E non solo perché si sono sparati addosso negli anni 80. Gli iracheni vanno a curarsi negli ospedali iraniani di Ahvaz e Qom, strutture sanitarie all’avanguardia rispetto a quelle a cui sono abituati in Iraq.
L’Iran va raccontato per intero, non solo quello che fa comodo all’informazione mainstream. Invece si preferisce far credere che ci vivano milioni di terroristi o che sia un far west e non una terra da cui zampillano anche cultura e accoglienza. Senza una narrazione così pavida e parziale, nessuno tollererebbe più le sanzioni. Quelle sanzioni che rendono i popoli più vulnerabili e rafforzano il governo islamico, l’ipocrisia occidentale e i polpacci dei kulebar, gente dura che vorrebbe solo vivere in pace.
(1 – continua)