L’epidemia di Coronavirus ci ha costretti a vivere un esperimento sociale su larga scala. All’improvviso ci siamo trovati nel mondo che tanti elettori della Lega, di Trump, di Marine Le Pen e non solo hanno invocato per anni: frontiere chiuse, commercio internazionale al minimo, autodiagnosi e terapie fai da te su Facebook per le masse, diffidenza verso ogni straniero, drastico cambio di stili di vita con fulmineo distacco da consumismo ed edonismo. Niente partite, niente fiere, niente shopping, niente concerti.
I risultati, ancora impossibili da stimare del tutto, sono catastrofici. Unicredit ha notato che un terzo di punto percentuale del Pil mondiale è fatto dai viaggi dei cinesi all’estero. Basterebbe che tornassero ai livelli del 2008 per spingere il mondo in una recessione simile a quella del 2001, l’anno dell’11 settembre e della bolla Internet. Il nostro stile di vita dipende dall’integrazione, il fallimento nel prevenire il disastro – ormai è chiaro – è frutto del controllo politico sulla scienza in Cina e dell’assenza di coordinamento in Occidente, oltreché di una cultura sanitaria insufficiente per queste sfide tra noi persone normali (a cominciare dai giornalisti).
Da ogni disastro però si può imparare: questa crisi ci dimostra anche che l’inquinamento che tutti dicono di voler combattere scende soltanto con soluzioni drastiche (guardate le mappe delle polveri sottili in Lombardia prima e dopo l’epidemia), ripensando il modo di vivere e il lavoro. Imprese refrattarie alla tecnologia stanno scoprendo che far lavorare i dipendenti da casa preserva la produttività e permette loro di gestire la famiglia, le scuole sono costrette a inventarsi lezioni via web.
Sarà durissima, molte imprese spariranno e non torneranno – nella subfornitura i grandi clienti si saranno già rivolti altrove quando sarà passata la bufera – l’Italia rischia una recessione drammatica. Non c’è più uno status quo da difendere, è ora di decidere tutti insieme che Paese vogliamo essere, senza cercare scorciatoie.