“Una gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria rispetto ai protocolli”. Lunedì sera, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte attribuiva colpe chiare all’ospedale di Codogno per la prima diffusione del Covid-19. Peccato però che a quella frase non sia seguita una spiegazione su quali violazioni e quali protocolli. Ieri lo stesso Conte ha fatto marcia indietro. “L’ospedale di Codogno? Non è il momento delle polemiche. Non hanno alcun valore per me. L’assessore alla Sanità della Lombardia ha una relazione in cui si dimostra la piena correttezza dei sanitari dell’ospedale di Codogno”.
Capitolo chiuso? Non del tutto. Un dato è certo: il virus ha avuto un focolaio importante a partire dal pronto soccorso dell’ospedale civico di Codogno. Qui è stato individuato il paziente 1, qui già il primo giorno sono risultati positivi cinque operatori sanitari e tre degenti. Per capire la verità e se ci sia una colpa bisogna mettere insieme circolari e ordinanze emanate dal ministero della Salute e la cronologia dei fatti avvenuti tra il 16 e il 20 febbraio.
Secondo una informativa letta ieri dall’assessore Giulio Gallera in consiglio regionale, il paziente 1 inizia ad avere sintomi influenzali la domenica 16. In quel momento si trova a casa con la moglie incinta. Cosa faccia il 17 resta un buco. Il 18 febbraio da solo si reca al pronto soccorso. Entra alle 20:30 e ne uscirà alle 22:15. Sarà trattato, tra triage e visita, da cinque persone. Secondo le direttive generali, al di là del Covid-19, un paziente che mostri sintomi infettivi trasmissibili attraverso le vie aeree va trattato con le mascherine sia da parte del personale sanitario sia applicata al paziente. Il 38enne secondo queste linee viene preso in carico. Tutti gli operatori indossano mascherine. Non però le FFp2, come indica il ministero, ma quelle chirurgiche, le uniche in quel momento a disposizione dell’ospedale di Codogno. L’uomo viene mandato a casa con una terapia antibiotica per quella che si pensa essere un’influenza. Un pensiero confermato da alcune risposte date dal paziente.
Da protocollo, le domande riguardano viaggi in Cina o contatti con persone rientrate dalla Cina. L’uomo risponde negativamente. Torna a casa. Il giorno dopo, mercoledì 19, rieccolo in ospedale. È in compagnia della moglie. Le sue condizioni sono drammaticamente peggiorate. Da lì a poche ore diventerà il paziente 1. Fermiamoci un attimo. Fino a qui i protocolli sono stati seguiti? Certamente. L’unico buco è l’uso di mascherine improprie. Quelle corrette dovevano essere richieste dalla direzione sanitaria o inviate dal ministero visto che l’allarme per il Covid-19 era partito il 22 gennaio con la prima circolare del governo dove oltre ai sintomi del virus vengono indicate le modalità con cui devono essere trattati i casi sospetti. Si legge che “vanno visitati in un’area separata dagli altri pazienti e ospedalizzati in isolamento in un reparto di malattie infettive. Si raccomanda che il personale sanitario applichi le precauzioni per prevenire la trasmissione per via aerea e per contatto. In particolare, dovrebbe indossare la mascherina. Qualora siano necessarie procedure che possono generare aerosol, la mascherina dovrebbe essere di tipo FFP2”. Che a Codogno non ci sono.
Il 19 febbraio, il paziente è dunque di nuovo in pronto soccorso. Il quadro è gravissimo. Subito viene messa la maschera per l’ossigeno. In quel momento, su sollecitazione di un anestesista, la moglie rivela la cena con un amico rientrato da Shanghai. Solo ora il paziente è un concreto caso sospetto di Covid-19. Sarà intubato. Procedono due anestesisti che adesso risultano contagiati. Indossavano mascherine chirurgiche o le prescritte FFp2? Alle 21 di giovedì 20, il tampone conferma la positività del paziente 1. Nessuna diffusione del virus è stata possibile da dopo che è stato intubato. Il passaggio è però avvenuto. Ma non per una violazione dei protocolli, piuttosto forse per l’uso di mascherine non adatte come già a gennaio aveva indicato il ministero.