“La prima direttiva specifica su come trattare i casi è arrivata il 24 febbraio”, racconta una dottoressa di base. La scoperta del primo caso accertato risale al 20 febbraio, giorno in cui Mattia, il 38enne di Codogno “paziente 1”, viene trovato positivo al Covid-19. Tra la certezza circa la presenza del morbo nel Lodigiano e il momento in cui il Dipartimento cure primarie dell’Ats di Milano ha inviato le indicazioni su come trattare i casi sospetti ai medici di famiglia della zona sono passati quattro giorni.
Nell’area di Castiglione d’Adda e Bertonico ci sono 5 medici: 4 sono di base, poi c’è una pediatra. “In 4 siamo in quarantena, chi in ambulatorio, chi in ospedale – racconta al Fatto la dottoressa – io e la mia collega siamo chiuse in studio a lavorare. Rispondiamo ai nostri pazienti e giriamo le telefonate al collega inviato dall’Ats di Milano. È arrivato lunedì, prima di allora non c’era più neanche un medico”. Nella cittadina del Lodigiano, dichiarato zona rossa perché tra i principali focolai del coronavirus in Italia, i numeri sono eloquenti: “Tra i nostri assistiti ce ne sono circa 50 ricoverati perché considerati gravi”, racconta il medico. Castiglione ha 4.500 abitanti, con Bertonico si arriva a 6mila. “Poi ce ne sono tre a casa in isolamento perché positivi al tampone ma non così gravi da giustificare un ricovero. Molti altri sono in quarantena”. In questa situazione è stato difficile avere presidi sanitari, mascherine e guanti, e direttive dalle autorità sanitarie. “Per giorni non è arrivato nulla – spiega la dottoressa – fino a ieri (martedì, ndr) dovevamo andare noi a prendere le mascherine a Lodi, in piena zona rossa. Ora i colleghi ci dicono che oggi qualcosa comincia ad arrivare”.
Nel frattempo anche le direttive hanno faticato ad arrivare. Il primo caso acclarato risale al 20 febbraio: quel giorno Mattia, il 38enne ricoverato a Codogno e considerato il “paziente 1” era stato trovato positivo al tampone. Da quel momento sono passati 4 giorni prima che i medici del territorio ricevessero istruzioni precise su cosa fare: “La prima direttiva contenente disposizioni precise su come dobbiamo trattare i casi sospetti mi è arrivata il 24 – prosegue la dottoressa –, è datata 22 febbraio e conteneva indicazioni su come dobbiamo accettare i pazienti in ambulatorio, ma noi medici eravamo già tutti in quarantena perché avevamo già avuto pazienti certamente positivi. E oggi ne è arrivata una nuova su come segnalare i casi di medici contagiati”. “Richiamate le indicazioni di cui alla circolare del Ministero della Salute del 22/02/2020 – si legge – si forniscono le seguenti indicazioni”. E giù l’elenco: l’accesso in ambulatorio deve avvenire solo dopo “triage telefonico”, “ai pazienti non sospetti deve essere dato un accesso differenziato”, “i pazienti devono recarsi in ambulatorioda soli”, recitava la mail del 24.
Il virus a Castiglione però circolava da tempo. “Tutti i nostri positivi risalgono ai pazienti visitati tra il 12 e il 21 febbraio, giorno in cui siamo entrati in quarantena. Solo io ne ho visitati, anche a domicilio, 12 o 13. I più gravi li abbiamo visitati a domicilio”. Qualcosa è mancato, quindi. “Sarò all’antica – prosegue il medico – ma servono protocolli nazionali già previsti per qualsiasi malattia che scattano in caso di emergenza. Era difficile prevedere che sarebbe successo a Castiglione in questi giorni. Ma non si poteva non prevedere che il virus sarebbe arrivato in Italia”. In realtà lo si era previsto, ma ci si è concentrati sulla Cina. “Fin dai primi di gennaio avevamo indicazione di monitorare se c’erano pazienti rientrati dalla Cina. Una volta domandato questo, finiva lì”. Il problema è che in molti casi la malattia è passata da italiano a italiano.
Il medico che venga contattato da un paziente che riferisce sintomi respiratori deve “indagare la presenza di viaggi in Cina negli ultimi 14 giorni (…) o contatto con caso accertato come da definizione di caso sospetto allegata”, si legge in una news della Regione Lombardia del 28 gennaio intitolata “Coronavirus, assessore Gallera: emanate direttive a medici medicina generale e ospedali per presa in carico ‘casi sospetti’”. È il metodo che è stato applicata al “paziente 1”. Il 14 febbraio Mattia sta male: da Codogno va a Castiglione a farsi visitare in studio dal dottor Luca Pellegrini, ora ricoverato, e torna a casa. Il 16 la febbre è salita e l’uomo va in ospedale: gli operatori domandano: è stato in Cina? No. E viene dimesso con una terapia antibiotica. Il 18 Mattia torna: non respira quasi più. La moglie ricorda la cena con l’amico tornato dalla Cina e gli viene fatto il tampone. Il risultato arriva il 20: è positivo. Se le indicazioni della Regione non si fossero concentrate solo sulla Cina, forse la storia sarebbe stata diversa. “Abbiamo seguito in maniera pedissequa le linee guida e le circolari ministeriali”, la risposta di Giulio Gallera. “A Codogno non c’è stata nessuna deroga ai protocolli o negligenza”.
Tra le circolari del ministero ci sono delle discrasie. Quella del 22 gennaio prescrivono di considerare “storia di viaggi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia” ma di trattare come caso sospetto anche “una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio”. Ma nella direttiva del 27 la frase non c’è più. Restano solo i legami con la Cina.