Ci sono due interessi da tutelare nella diffusione delle notizie sui malati di coronavirus. Da un lato il diritto alla riservatezza garantito ai malati e dall’altro il diritto alla salute della collettività che vuole conoscere i rischi di contagio.
In Italia le autorità e i giornali hanno pubblicato iniziali, età, luogo di nascita, residenza e il lavoro dei malati, permettendo di individuarli, come è accaduto per il “paziente uno”. Altre volte hanno pubblicato il nome intero come è accaduto al medico del medesimo paziente uno, ricoverato lui stesso. Anche il Garante della Riservatezza italiano, Antonello Soro, ha ammesso che in casi come questi il diritto alla privacy soffre eccezioni.
Quel che è successo il giorno di San Valentino rende bene l’idea del differente atteggiamento canadese. Il 14 febbraio il sindaco di un paesino del Veneto, pensando di fare l’interesse della sua collettività, ha divulgato in chat nome e indirizzo di una bambina di 8 anni contagiata dal nonno. Lo stesso giorno, il 14 febbraio 2020, una 30enne di ritorno dall’Iran volava da Montréal a Vancouver su Air Canada e poi andava in auto nella regione di Fraser, est di Vancouver. Quando si è saputo che era positiva al virus e che aveva contagiato probabilmente pure un 40enne, le autorità non hanno voluto rivelare i nomi né la città di residenza. Hanno solo avvertito i passeggeri seduti tre file avanti e dietro e l’equipaggio dell’aereo, chiedendo loro di auto-monitorarsi, se lo ritenevano, mettersi in quarantena. Nessun obbligo. Poi le autorità hanno avvertito tutte le scuole di Maple Ridge, Pitt Meadows e Tri-Cities che la trentenne (probabilmente una docente) aveva avuto contatti con persone che frequentavano le scuole di quella zona. A quel punto, i genitori della zona hanno chiesto qualche particolare in più sulle scuole frequentate dai contatti della donna. La dottoressa Bonnie Henry, agente sanitario provinciale, ha risposto che non aveva intenzione di condividere informazioni come quelle sulle scuole frequentate dai contatti della malata. La ragione? “Non dobbiamo perdere la fiducia delle persone che potrebbero non ammettere di essere malate per paura di essere penalizzate”. Le autorità hanno rassicurato tutti sostenendo di avere chiamato “chiunque fosse stato in stretto contatto con la donna di 30 anni”. Tanto basta. “Identificare la scuola potrebbe rendere le persone che la frequentano un ‘target’”.
Quindi non è solo la privacy del malato e dei suoi contatti a essere in ballo – secondo l’impostazione canadese – ma in seconda battuta l’afflusso dei dati da parte dei malati e quindi la corretta informazione sul rischio contagio e alla fine la salute di tutti i cittadini.
Non è solo questa la differenza tra Canada e Italia.
Il monitoraggio del rischio è di fatto “privatizzato” e affidato (complice anche il diverso sistema sanitario) ai singoli cittadini, non allo Stato. Le autorità contattano chi sia stato “in stretto contatto con qualcuno a cui è stato diagnosticato Covid-19” ma poi, come spiega il bollettino della Fraser Health i contatti suddetti, una volta informati, “dovrebbero considerare di rimanere a casa per 14 giorni dopo il loro ultimo incontro” e monitorare da soli la propria situazione. Tutti i cittadini (non solo i contatti del malato, non solo chi è stato in Cina o è in contatto con i cinesi) poi sono invitati a stare a casa con “sintomi come febbre e tosse”.
Tutto è rimesso alla coscienza dell’individuo. Il presunto malato si rivela alle autorità che, in caso positivo, non lo danno in pasto ai media ma si fanno dire i suoi contatti e li raggiungono a uno a uno per consigliare loro di monitorarsi e mettersi in quarantena. In Italia le limitazioni alla riservatezza sono maggiori. Eppure, sarà per la sfortuna o per l’eccesso di zelo con i tamponi, allo stato il Canada, che vanta un’alta popolazione di origine cinese, ha avuto undici casi e l’Italia più di 400.