Anche l’Iran ha la sua Stalingrado. È Khorramshahr, città portuale della provincia del Khùzestàn adagiata sulla sponda orientale dell’Arvand (Shatt al-‘Arab in arabo), il fiume che nasce dalla confluenza tra Tigri ed Eufrate e che, in quel tratto, segna il confine tra Iran e Iraq.
Il 22 settembre del 1980 l’Iraq invase l’Iran. Khorramshahr fu la prima città persiana assediata. Gli iracheni riuscirono a conquistarla dopo settimane di combattimenti casa per casa. Le truppe iraniane esigue, mal equipaggiate, inesperte si comportarono in modo eroico prima di capitolare. Ancora oggi i segni della guerra sono visibili tra le vie del centro. A pochi passi dal mercato, sul fiume dove i giovani pescatori arabo-iraniani squamano il pesce che arriva dal Golfo Persico, ci sono case distrutte. Sembra che le bombe vi abbiano fatto visita la settimana scorsa. La guerra può anche finire con la firma della pace ma i conflitti durano a lungo.
Saddam Hussein attaccò il Khùzestàn con la scusa di liberare gli arabo-iraniani che abitavano la regione. In realtà era la provincia più ricca dell’Iran e lo è ancora. Fa parte della mezzaluna fertile, l’area del mondo che va dall’alto Egitto al Golfo Persico passando per la Mesopotamia, e che per molti rappresenta la culla della civiltà. In Kùzestàn gli agricoltori coltivano cereali da millenni, i pastori nomadi pascolano le capre e i tecnici del ministero del Petrolio supervisionano le attività estrattive. Greggi e greggio potremmo dire: la ricchezza del passato, quella del presente e la grande speranza del futuro.
Lo scorso anno nella regione è stato scoperto l’ennesimo giacimento di petrolio. Si parla di 53 miliardi di barili, il secondo campo petrolifero del Paese dopo quello di Ahvaz che è il terzo più grande del mondo.
Khorramshahr confina con Abadan, altra città bombardata dai cannoni iracheni per via della sua immensa raffineria. Scrive lo scrittore Ryszard Kapuscinski: “Il petrolio contagia la mente, annebbia la vista, corrompe i cuori”. A volte penso che per la Persia, terra di cultura e poeti tra i più raffinati della storia, i pozzi siano stati una maledizione.
La prima guerra della Cia
La raffineria di Abadan apparteneva all’Anglo-Iranian Oil Company (l’attuale British Petroleum). Nel 1953 il Premier Mossadeq (un nazionalista laico, non un mullah) la nazionalizzò. Sosteneva che il petrolio e l’industria per raffinarlo dovessero appartenere al popolo iraniano. Per questo fu deposto da un colpo di Stato promosso dalla Cia e dai servizi segreti britannici. La stessa Cia che autorizzò Saddam a invadere l’Iran.
Erano tempi difficili per la Persia. Lo Scià era fuggito e il Paese era in preda ad una guerra civile. Il grano scarseggiava e l’esercito era allo sbando per via delle epurazioni dei vertici accusati di essere il braccio insanguinato dello Scià. Il trionfo della Rivoluzione islamica non era affatto scontato ma poi ci hanno pensato gli americani a favorirne il successo. È stata l’invasione irachena a forgiare un’intera generazione di rivoluzionari iraniani diventati poi classe dirigente del Paese. È stato Saddam Hussein, con il beneplacito dell’ex presidente Usa Jimmy Carter e di quello dell’ex Unione sovietica Lonid Brežnev, a compattare l’opinione pubblica iraniana attorno al governo islamico.
L’invasione dell’Iran da parte irachena fu una delle rarissime occasioni in cui, durante la Guerra Fredda, Usa e Urss si trovarono dalla stessa parte della barricata. Mosca temeva che la rivoluzione islamica dilagasse nelle repubbliche sovietiche a maggioranza musulmana mentre Washington sperava di rimettere le mani sul petrolio persiano.
L’Iran respinse le forze irachene nonostante l’inferiorità di mezzi. Vi riuscì grazie al sacrificio di centinaia di migliaia di giovani convinti di difendere non solo la nazione ma l’esistenza stessa del mondo sciita.
Il patriottismo persiano
Ma ai più fervidi religiosi si unirono centinaia di migliaia di iraniani spinti solo dal patriottismo. Molti di loro non vedevano di buon occhio né Khomeini né l’islamizzazione della società. Ciononostante si sentivano persiani, sotto attacco e dovevano difendere la Patria dall’invasione straniera.
Questo spirito in Iran è ancora oggi fortissimo. I confini dell’Iran, a differenza di quelli di molti altri paesi dell’area, non sono frutto di una mappatura colonialista. L’Iran non è l’Iraq. Storia diversa, territorio diverso, attaccamento alla Patria diverso. Questo i marines lo sanno perfettamente. Sanno che attaccare l’Iran significherebbe per loro andare incontro ad un Vietnam mediorientale e nessun Presidente degli Stati Uniti, ancor meno in campagna elettorale, potrebbe mai permetterselo.
A Qom ho conosciuto Abbas, sessant’anni anni, laurea in architettura conseguita in Italia e quattro figli nati e cresciuti in Puglia. Nel 1982 prese un aereo per Teheran. Aveva tre mesi liberi prima della sessione successiva e ne approfittò per andare al fronte come volontario e partecipare alla riconquista di Khorramshahr. “Io non cercavo la guerra, mi faceva male al cuore sparare contro altri musulmani ma dovevo difendere la nostra Patria e la nostra fede”.
Ad Ahvaz le immagini del comandante Ali Hashemi sono dappertutto. Lungo le strade, sui cavalcavia, sulle pareti dei palazzi che si affacciano sulle rotonde della città. Ali Hashemi era un pasdaran ed era arabo, per questo riusciva a infiltrarsi tra le linee irachene per mandare informazioni in Iran. Nessuno riuscì mai a scoprirlo. Era l’incubo di Saddam Hussein il quale non si spiegava perché molti arabo-iraniani difendessero la Persia invece di passare con gli iracheni. Ali Hashemi venne ucciso poche settimane prima della fine della guerra a Majnoon Island, in territorio iracheno. Il corpo venne riconsegnato ai familiari ventidue anni dopo, in seguito alla caduta di Saddam Hussein per mano statunitense. Oggi riposa in un piccolo mausoleo in costruzione all’ingresso del cimitero di Ahvaz. Di fianco a lui c’è la tomba del generale Jabbar Daryavi, morto nel 2014 mentre combatteva l’Isis sul fronte siriano.
Mohammad Hossein, il figlio di Ali Hashemi, mi ha invitato a casa per un tè. Lì ho conosciuto la mamma del comandante. Indossava un chador nero, teneva in mano un tasbih, il “rosario sciita” e continuava a versare lacrime per suo figlio caduto in battaglia trentadue anni fa. “Il dolore che provo ancora oggi per la morte di mio figlio è pari all’orgoglio di aver donato la sua vita all’Islam”. Non è compito mio giudicare sentimenti così intensi e diversi da quelli che si proverebbero nel nostro mondo. È mio compito registrare una realtà e riproporla senza filtri. Persone che ragionano come la signora Hashemi ve ne sono molte in Iran. La “generazione del fronte”, formatasi in risposta all’invasione irachena, esiste ancora e tornerebbe in prima linea in caso di attacco nordamericano. E anche coloro i quali, non senza ragioni, sono oggi in primissima linea nelle proteste contro l’attuale governo iraniano, partirebbero volontari se il loro Paese fosse sotto attacco. Perché la maggior parte dei persiani, anche quelli che non confidano minimamente nella Guida Suprema confidano ancor meno nelle “nobili” intenzioni occidentali. Chiedono un cambio, ma vogliono decidere loro come e dove cambiare.
Il patriottismo persiano ha trovato nutrimento dal colpo di stato promosso dalla Cia nel 1953, dalle bombe di fabbricazione statunitense sganciate dai caccia iracheni sulle città iraniane, dall’Airbus Iran Air con a bordo 290 passeggeri (di cui 66 bambini) abbattuto “per errore” nel 1988 da un missile terra-aria partito dall’incrociatore Vincennes della US Navy e dall’assassinio del generale Qasem Soleimani lo scorso 3 gennaio.
La forza della rivoluzione
La Rivoluzione islamica ha trovato nei suoi primi anni di vita linfa vitale proprio nell’ostilità di Washington. Khomeini non era un socialista, probabilmente detestava l’Urss atea e materialista più degli Stati Uniti d’America. Eppure avallò una riforma agraria perché senza la distribuzione della terra ai contadini e la conseguente creazione di migliaia di cooperative agricole in Iran si sarebbero mangiati il fango durante la guerra. I mullah hanno sempre ritenuto sacra la proprietà privata eppure sostennero progetti di nazionalizzazione perché sotto attacco iracheno era necessario centralizzare la produzione industriale.
Ripeto, senza le ingerenze statunitensi non è detto che il Governo islamico esisterebbe ancora. Eppure ancora oggi l’ingerenza, l’ostilità e le minacce nordamericane sono benzina nei motori sempre più inceppati del governo degli Ayatollah.
Oggi l’Iran è un attore strategico della regione ed è questo che Israele non riesce ad accettare. Ma se ci è diventato è perché gli Stati Uniti hanno eliminato o indebolito i principali avversari di Teheran nella regione. Saddam Hussein e i talebani erano acerrimi nemici dell’Iran. Gli Usa hanno spazzato via il primo e fiaccato i secondi. Come possono oggi sorprendersi della forza politico-militare della Persia?
Hanno creduto di abbattere la Rivoluzione islamica con le sanzioni. È avvenuto il contrario. l’Iran produce il 97% dei farmaci di cui ha bisogno; ha raggiunto l’autosufficienza cerealicola e vende elettricità ai paesi limitrofi. In Iran si fabbricano le centrifughe per arricchire l’uranio e gli ingegneri persiani sono tra i massimi esperti mondiali in reverse engineering.
Si non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum: “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”. Oggi a Washington sono troppo orgogliosi per fare propria questa lezione ma l’Europa dovrebbe ricordarsi che spesso è stato il pragmatismo a garantirne le principali conquiste. L’islamofobia e la russofobia spingeranno Teheran e Mosca sempre più tra le braccia di Pechino è questo è contro i nostri interessi.
Se l’Unione Europea iniziasse a fare gli interessi degli europei e non quelli nordamericani sarebbe una grande conquista. La stessa esistenza dell’Europa dipende dal coraggio e dall’autonomia che sarà capace di dimostrare nei prossimi 10 anni. Non c’è molto tempo. La Cina è vicina, ma lo è anche Teheran. Sarebbe ora di avere la lucidità di comprenderlo.
di Alessandro Di Battista
(2 – continua)