L’agenzia del governo americano incaricata di preparare il sistema sanitario Usa al Coronavirus, il Cdc, ha un problema: molte delle medicine e dei macchinari fondamentali arrivano dalla Cina e la catena di fornitura è minacciata proprio dall’epidemia. Ben 63 imprese con 72 stabilimenti in Cina che producono dispositivi medici che il Cdc considera “essenziali” sono colpiti dal virus, hanno lavoratori in quarantena e non sono sicuri di poter assicurare la produzione. Per ora non ci sono stati ritardi, ma quanto durerà?
Di solito le crisi economiche sono di domanda (mancano i clienti) o di offerta (mancano i produttori). Questa è una crisi di catena di fornitura, di supply chain: la Harvard Business Review la paragona agli uragani in Louisiana o alle tempeste di ghiaccio nel Kentucky, non alla crisi finanziaria del 2008 o alla Grande Depressione. La domanda c’è, l’offerta ci sarebbe pure, nel senso che non stanno fallendo imprese o banche per colpa di choc finanziari. Ma le aziende non riescono a produrre e a far arrivare i prodotti ai clienti, anche se questi sono disposti a spendere qualunque cifra. Ma non c’è nulla da comprare.
Ieri la Banca centrale americana, la Federal Reserve, ha tagliato i tassi di interesse di mezzo punto, per la prima volta dal 2008: la classica risposta monetaria a una situazione di incertezza. Tassi più bassi possono favorire gli investimenti, dare un piccolo sostegno agli indici di Borsa, ma non fanno arrivare i prodotti sugli scaffali. Nel 2008 l’economia era paralizzata da una crisi di fiducia: le banche chiedevano tassi esagerati per prestarsi il denaro tra loro perché non sapevano se la controparte sarebbe fallita o no di lì a poco. Nel 2011 molti Stati europei, Italia inclusa, rischiavano la bancarotta perché gli investitori privati alzavano il prezzo dei loro prestiti. Le Banche centrali hanno dato liquidità a prezzi bassissimi e hanno comprato i titoli che nessuno voleva. Ma oggi possono fare ben poco.
Altrettanto poco può fare la politica fiscale: le tipiche ricette keynesiane – creare posti di lavoro e domanda artificiale con soldi pubblici – non sono praticabili quando i lavoratori non escono di casa, i camion non circolano, gli stadi sono chiusi e la gente non prenota vacanze o viaggi di lavoro perché a casa malata o perché teme il contagio. A parte evitare crisi di liquidità alle imprese, sospendendo pagamenti di tasse e interessi alle banche, la politica è impotente. Non basta un decreto del governo a riorganizzare la catena di fornitura di imprese grandi o a evitare che i committenti tedeschi dei nostri contoterzisti in Veneto e Lombardia si rivolgano altrove, in attesa della fine dell’epidemia.
Governi e banche centrali possono evitare che una crisi di catena produttiva diventi una crisi di liquidità, arginando il rischio che banche e imprese falliscano perché non hanno cassa per affrontare pagamenti in scadenza. Ma non siamo in Unione Sovietica, la catena di fornitura è troppo globale e complessa, sfugge al controllo di ogni governo. Nelle prime due settimane di gennaio, la domanda di auto in Cina è crollata del 92 per cento su base annua. Il 20 per cento dei 21 milioni di automobili vendute in Cina lo scorso anno arrivava o per importazioni o per investimenti diretti nel Paese da costruttori tedeschi. Che, a loro volta, si riforniscono nei distretti italiani. Negli Stati Uniti il numero di citazioni del Coronavirus nei documenti sui fattori di rischio che le imprese sottopongono alla Sec, la vigilanza su Wall Street, è passato da zero a fine gennaio a oltre 500 in un mese. L’associazione delle autorità portuali americane prevede un calo dei volumi cargo nel primo trimestre 2020 del 20 per cento. Quale governo può affrontare questi problemi?
La Casa Bianca di Donald Trump non è riuscita neppure ad approntare i tamponi per i test sul virus, disponibili solo ad Atlanta, dove ha sede l’agenzia federale Cdc contro le epidemie. Il vicepresidente Mike Pence, incaricato di gestire l’emergenza, ha diffuso le foto del momento di preghiera con il resto del comitato anti-crisi: in effetti chi vive negli Usa, in questi giorni, si affida più a Dio che al governo federale. Se dopo la catena di montaggio del mondo, la Cina, si paralizza anche il più grande centro di consumo, cioè l’America, l’economia mondiale sarà bloccata come mai prima.
La produzione industriale italiana è ancora 23 punti percentuali sotto il livello del 2007, prima dell’ultima crisi. Non ci siamo mai ripresi. E questa crisi rischia di essere peggio, perché non è un problema di fiducia. Ma di organizzazione. Rischiamo di essere tagliati fuori dall’economia mondiale, che si riorganizza sacrificando le aziende e i Paesi vittime del virus.