Luigi Ventura, professore ordinario di Economia politica alla Sapienza di Roma, ha analizzato il tasso di letalità da coronavirus registrato in Italia, lo ha messo a confronto con quello registrato nelle aree del mondo più colpite e si dice “preoccupato”. Perché “con i suoi attuali casi confermati il nostro Paese supera, e di molto, il numero di quelli registrati in tutte le province cinesi a eccezione di quella dello Hubei, la cui capitale è Wuhan”.
Proviamo a dare dei dati, professore.
Andando a prendere i dati forniti dalla Johns Hopkins, il cui database racchiude i numeri forniti dalle più importanti agenzie internazionali a partire dall’Oms, possiamo fare un confronto. Ecco, solo 4 delle 30 province cinesi esclusa quella dello Hubei riportano un numero di casi superiori alle mille unità, cifre in ogni caso molto inferiori ai circa 2mila casi positivi registrati in Italia.
Stiamo sottovalutando?
Se un presidente di Regione dice che il Covid-19 è ‘poco più di una normale influenza’ (le parole sono di Attilio Fontana, governatore della Lombardia, ndr) si rischia di non affrontare l’emergenza nel migliore dei modi. Anche perché se la Cina ha messo in campo quelle misure e ha ottenuto dei risultati, è uno sforzo che le va riconosciuto.
E non lo stiamo facendo?
All’inizio di questa storia, quando in Italia si cominciò a parlare del virus ma il nostro Paese non era stato ancora toccato dal problema, intorno al 20 gennaio, la questione è stata trattata in un modo che ha rischiato di generare il panico. Ora che il problema ci tocca direttamente e che abbiamo dati strutturati sui quali lavorare, non li trattiamo come dovremmo trattarli.
Ci spieghi.
Conoscere le caratteristiche esatte di un fenomeno come questo è indispensabile per mettere a punto le contromisure più adatte. Per fotografare la diffusione del virus è sicuramente necessario considerare tutta la gamma dei casi: i ricoverati con sintomi, quelli in terapia intensiva e le persone che si trovano in isolamento domiciliare. Ma calcolare il tasso di letalità solo sugli ospedalizzati forse aiuta a fotografare meglio il fenomeno, perché questi ultimi sono quelli che purtroppo rischiano di morire. Gli asintomatici e coloro che restano a casa per precauzione, se non degenerano non corrono questo rischio. E se fotografiamo meglio il fenomeno possiamo dare risposte più incisive.
Partiamo dalle basi.
Il tasso di letalità è un indice che serve per comprendere l’impatto di una data malattia su una popolazione e si calcola dividendo i decessi con il numero dei casi confermati.
In base agli ultimi dati forniti ieri dalla Protezione civile, i decessi registrati in Italia sono 79 e i casi confermati sono 2.502.
Con questi numeri il tasso nel nostro Paese è del 3,15%, quando in alcuni degli Stati più interessati è molto più bassa. Nelle province cinesi, escluso lo Hubei, il dato si è dello 0,8%. In quella, tenendo fuori Wuhan che fa storia a sé, è del 3,3%. Wuhan è al 4.5%, ma è comprensibile perché è l’epicentro dell’epidemia. In Corea del Sud, che è il Paese che con l’Italia e l’Iran preoccupa di più l’Oms, ci sono 5.186 casi e 31 vittime. Il tasso è dello 0,6%.
Quindi il dato italiano, dice lei, è troppo basso?
Desta preoccupazione. Inoltre, se come dicevamo prima, lo calcolassimo solo sui casi ospedalizzati, metodo che restituirebbe un’immagine più fedele del fenomeno, saremmo al 5,2%.