La globalizzazione? Abbiamo scherzato, il gioco è bello finché dura poco. Ecco, se si dovesse tentare di tradurre in parole quel sentire montante che il virus sta generando in buona parte della collettività, probabilmente bisognerebbe partire da qui. È sufficiente prendere la definizione che dà di globalizzazione il sociologo inglese Anthony Giddens per capire cosa in questa fase stia indisponendo ulteriormente una buona parte di cittadini nei confronti di quello che è già uno dei fenomeni più controversi della contemporaneità: “La globalizzazione può perciò essere definita come l’intensificazione delle relazioni sociali globali che collegano località distanti in un modo tale che gli eventi locali vengono modellati da eventi che si verificano a molte miglia distanti, e viceversa”.
Parafrasando Giddens, l’idea di molti è che ciò che stiamo vivendo in queste ore in Italia sia frutto dell’interconnessione diretta con ciò che appena due mesi fa abbiamo visto verificarsi in Cina. Insomma, il cosiddetto butterfly effect, per cui il battito d’ali di una farfalla può provocare un urugano dall’altra parte del mondo, perde ogni componente poetico-letteraria e diventa ragione di concreta idiosincrasia. Alle disuguaglianze economiche, allo sfruttamento della mano d’opera, alle delocalizzazioni, ai flussi migratori, tra gli effetti collaterali della suddetta globalizzazione si aggiunge, least but tutt’altro che last, la rapidità di diffusione virale: a merci e persone, nel libero scambio, si affiancano i virus. E se è evidente che per un virus ponti o muri pari sono, è altrettanto evidente che su mezzi di trasporto veloci anch’essi viaggiano più rapidi. Così, senza che nessuno potesse prevederlo né tantomeno organizzarlo, il Corona virus finisce con l’essere un’involontaria freccia all’arco sovranista, facendo leva su una paura, conscia e inconscia insieme, molto più profonda di quella nei confronti del migrante che t’invade. Tutti i benefit garantiti da un mondo globalizzato, dalla vicinanza con tutto e tutti alla raggiungibilità di qualsiasi cosa praticamente in tempo reale, appaiono immediatamente come surplus innecessari di fronte al timore per la propria persona fisica e per quella dei propri cari. D’altro canto si parla di un sovranismo anomalo, molto difficilmente riconoscibile negli stilemi dei sovranismi attuali, giacché per far presto anche un virus preferisce un volo diretto di linea alla traversata della speranza su un barcone; e a poco serve chiudere i porti a chi viene dalla Libia se poi, ironia della sorte, il Covid sceglie un italiano come corriere per raggiungere l’Africa.
Nel sovranismo da contagio l’unto e l’untore si scambiano di ruolo in fretta, Paesi poveri chiudono le frontiere a Paesi ricchi come difficilmente avverrebbe in situazioni differenti: del resto in quest’ottica di protezionismo sanitario la scala delle priorità è completamente ribaltata e financo il denaro perde il suo ruolo ad honorem sul podio.
Al crocicchio della storia tra globalisti e sovranisti, il coronavirus subentra come la variabile impazzita che sposta l’asse del ragionamento, mettendo in evidenza tanto la fragilità delle ragioni degli uni quanto quelle degli altri, e mostrando come ciascun punto di vista ancora annaspi a tentoni, tra incoerenze e contraddizioni, con l’unica attenuante di non avere precedenti a cui fare riferimento. Tra le incertezze dei governi e i carpiati delle opposizioni, l’unico punto d’incontro condivisibile e inoppugnabile è sapere di non sapere.