Milano
Il virus SarsCov2 che genera poi la malattia denominata Covid-19 ha fratelli e fratellastri e non solo in Cina. Questa la scoperta fatta dai ricercatori dell’Università Statale diretti da Massimo Galli a capo anche del dipartimento di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano. Legami stretti sono stati trovati e identificati con ceppi isolati in Europa, in particolare in Germania e in Finlandia. La ricerca, i cui risultati sono stati comunicati ieri, si è estesa anche oltreoceano individuando un collegamento di affinità anche con l’America latina. Tutti, comunque, sono riconducibili con una approssimazione ipotetica del 95% al ceppo originario scatenatosi a partire da novembre nella regione cinese di Hubei e nella città di Wuhan. E, dunque, spiegano i ricercatori della Statale, “è sbagliato parlare di virus italiano”. Non vi è dubbio, però, che questa corrispondenza con ceppi europei abbia individuato un mutamento nel tempo del SarsCov2. Questi cambiamenti, spiega la professoressa Maria Rita Gismondo, che sempre al Sacco dirige il laboratorio di microbiologia, virologia e bioemergenze, “sono del tutto normali nella vita di un virus, come per l’Italia anche in Cina il SarsCov2 ha fatto registrare una serie di mutamenti”. E del resto i ricercatori dell’Università Statale sono arrivati a tali conclusioni lavorando su tre ceppi isolati da pazienti contagiati all’interno del primo focolaio di Codogno. Non siamo però in presenza di tre virus diversi, ma dello stesso con caratteristiche differenti. Il professor Gianguglielmo Zehender è uno degli autori della ricerca e spiega: “Al momento in Italia abbiamo quattro ceppi, tre isolati da noi e un quarto isolato dall’Istituto superiore di sanità, tutti questi assieme a quelli circolati in Germania e in Finlandia formano un unico gruppo virale”. In sostanza i ricercatori hanno individuato la filogenesi del virus, attraverso “una caratterizzazione genomica” degli acidi nucleici e l’hanno messa in comparazione. Spiega il professor Massimo Galli: “L’analisi delle sequenze nei nostri pazienti ha evidenziato affinità con virus circolati in Germania, in America latina e in Finlandia. È probabile che queste sequenze vengano quindi da una sorgente comune”. Appare, quindi, un’ipotesi concreta che il virus sia entrato in Europa del tutto indisturbato. Insomma, il lavoro è ancora in divenire, anche perché i risultati di ieri arrivano dallo studio dei primi tre ceppi individuati a partire dai vecchi contagi del 20-21 febbraio scorso. “Questo tipo di ricerca – conferma il professor Zehender – è utile per ricostruire la storia di come il virus è arrivato in Europa, da quando è presente e come si sta distribuendo”. Questo stesso lavoro di mappatura lo si sta facendo per capire se il SarsCov2, individuato per la prima volta il 20 febbraio nel 38enne di Codogno, è migrato in altre zone d’Italia. “Al momento – spiega chiaramente la professoressa Gismondo – non abbiamo certezza che il ceppo di Codogno sia per migrazione lo stesso del Veneto o di quello attivo nella Bergamasca”. Qui il lavoro, prosegue Zehender, “segue gli stessi metodi, ovvero mettere a confronto le sequenze dei vari genomi identificati”. Ma se la migrazione nel tempo e nello spazio è fondamentale, lo è altrettanto la ricerca e lo studio degli anticorpi in grado di sconfiggere l’infezione da Covid-19. “A brevissimo – spiega la professoressa Gismondo – partirà uno studio su un buon numero di casi di polmonite registrati tra dicembre e gennaio”. In quel periodo, come già spiegato dal Fatto, molti di questi casi hanno mostrato sintomi simili al Covid-19, ma non sono stati studiati con questa chiave. “Ci appoggeremo – spiega Gismondo – alle strutture sanitarie per mettere insieme un gruppo di pazienti, le analisi sul sangue potranno dirci qualcosa di più sugli anticorpi, non vi è dubbio che il virus da noi era presente già a dicembre”. Nella grande emergenza c’è poi un ultimo elemento: dati alla mano sembrano aumentare i casi di decessi e quindi di contagi in pazienti non anziani. Ultimo contagio un 51enne a Brescia e un decesso di un 55enne due giorni fa. “Rispetto alla morte di persone giovani – spiega il professor Galli – va detto che geneticamente non siamo tutti uguali, il che significa che ci dobbiamo aspettare qualche raro caso che va male in giovani che rispondono male al virus. Talvolta anche una risposta immunitaria in eccesso può portare gravi danni. Succede in altre malattie virali e forse potrebbe succedere anche in questa”. E ancora: “Attualmente abbiamo una letalità (numero di morti per numero di casi registrati) del 3,1% rispetto al 4,4% dell’area di Wuhan.
Se non avessimo fatto test anche nei contatti dei malati, nelle persone con pochi sintomi, la letalità nei nostri pazienti sarebbe potuta sembrare superiore a quella cinese”. Insomma, i decessi registrati in fasce di età medie rientrano in un banale calcolo matematico delle probabilità. Conclude la professoressa Gismondo: “Se il 90% riguarda anziani, questo, e lo sapevamo, non esclude che ci siano decessi tra i più giovani. Ancora non sappiamo se la causa della morte sia legata al Covid o siano intervenute, per i giovani adulti, altre cause più importanti”.