In Europa c’è una grande discrepanza nel numero di tamponi effettuati per scoprire i casi positivi al Coronavirus. E poca trasparenza: i numeri in molti Paesi non vengono resi pubblici. Anche nazioni come Germania, Francia e Spagna (tra le più popolose) non rilasciano dati certi sul numero di tamponi eseguiti, e neanche sul numero di pazienti in terapia intensiva (cartina di tornasole della gravità dell’epidemia, oltre al numero di decessi) o non li rilasciano per niente. Dai dati recuperati dal Fatto, l’Italia risulta aver effettuato in Europa, un numero di test senza paragoni con il resto d’Europa: 36.359 al 6 marzo (e la Protezione civile rilascia ogni giorno tutti i dati epidemiologici possibili con estrema trasparenza cosa che quasi nessuna nazione europea fa).
Il numero di test è più alto non solo perché in Italia sono scoppiati i primi grandi focolai. Ma anche perché gli altri Paesi potrebbero aver cercato meno attivamente i casi di polmonite atipica all’interno del proprio territorio. Troppo concentrati a cercare di individuarli tra chi, oltre ai sintomi, aveva avuto contatti diretto con le zone rosse o i loro abitanti (Cina, Singapore, Corea del Sud, poi Iran e Italia).
Il quadro che il Fatto ha potuto ricostruire è il seguente.
Germania: a fronte di 555 casi positivi notificati al 6 marzo 2020, un portavoce dell’Istituto Robert Koch (Rki) di Berlino – organo di riferimento scientifico sul Coronavirus per il governo tedesco – ha dichiarato al Fatto che “non è in grado di fornire il numero totale di test finora effettuati”. Il 3 marzo, riportavano “qualche migliaia” di tamponi fatti, ma non la cifra esatta. Al 6 marzo, l’Istituto ha aggiunto: “Secondo il Der Spiegel, la scorsa settimana sarebbero stati effettuati 10.700 tamponi”. Sembra incredibile che l’Istituto scientifico di riferimento per la Germania debba apprendere i dati dai media, e non viceversa. Gli attuali criteri per chiedere il tampone, stabiliti dall’Istituto, sono sintomi medi e gravi di polmonite, o lievi in altri casi, contatti con regioni a rischio o contagiati.
Francia: Al 2 marzo, il sito del ministero della Salute riportava poco più di mille test effettuati. Non sembra esserci ulteriore aggiornamento. Dal sito, per l’inclusione al test, i criteri clinici sembrano ancora fortemente collegati all’esposizione a zone a rischio. Il ministero , più e più volte contattato dal Fatto per chiarimenti, non ha avuto risposta.
Spagna: Il ministero della Salute ha risposto che non rende pubblico il numero di test effettuati, né ha risposto sul numero di pazienti in terapia intensiva e i criteri di inclusione al tampone.
Regno Unito: Sul sito del governo, al 6 marzo, risultano 20.338 test effettuati, 163 positivi e un paziente deceduto. Al 3 marzo, quando l’Italia aveva effettuato oltre 23mila tamponi, il Regno Unito ne aveva effettuati 13mila. I criteri per l’inclusione al test sono simili a quelli tedeschi. Ma prima di fine febbraio, i sintomi erano cercati principalmente tra coloro che erano stati esposti a zone a rischio.
Polonia: Il ministero della Salute ha rilasciato al Fatto il numero di test effettuati fino al 6 marzo (900): 5 positivi (il primo notificato il 4 marzo, gli altri quattro il 6), zero decessi e zero in terapia intensiva, ma 1.299 persone sono in quarantena e 6.184 in “osservazione epidemiologica”. I criteri includono, oltre ai sintomi, l’esposizione a zone a rischio, e il con persone contagiate.
Tra le nazioni meno popolose, l’Austria rende pubblico il dato di 4mila test effettuati con 47 positivi; la Norvegia, 1.395 con 56 casi positivi; la Svizzera ha effettuato 3mila test, di cui 87 positivi; la Finlandia 360 test e 12 positivi. Il ministero della Salute portoghese, così come quelli rumeno, ungherese e olandese non hanno risposto.
L’Oms chiede a tutte le nazioni la notifica dei casi positivi, non del numero di test effettuati. “L’Oms provvede alle linee guida affinché le singole nazioni possano prepararsi a rispondere all’epidemia”, ha risposto l’ufficio stampa. Il Fatto ha chiesto, senza successo, di sentire l’opinione di esperti della Who su questo. Come Bruce Aylward, capo della missione dell’Oms per il Covid-19 in China. Il 3 marzo ha dichiarato che i medici delle nazioni occidentali sono meno capaci dei cinesi nel salvare la vita di pazienti malati di Covid-19. Tra le ragioni, anche il fatto che in Cina si scoprono i casi positivi più velocemente. In realtà, in Italia, allo scoppio dei primi focolai “sono stati testati tutti i pazienti che i sanitari delle strutture interessate hanno reputato a rischio – spiega al Fatto Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica e virologia dell’Ospedale Sacco di Milano -. Un’indagine molto ampia per garantire il massimo contenimento. È una strategia molto impegnativa ma anche molto cautelativa per la popolazione”. Pierluigi Lopalco, epidemiologo all’Università di Pisa, spiega che “in Italia ci siamo accorti fin dal primo caso positivo che bisognava cercare attivamente tra i casi di polmonite sospetta negli ospedali e poi tra i contatti di questi pazienti, non solo nei sintomatici di ritorno da zone a rischio”.