Behesht-e Zahra, il cimitero di Teheran ha cinquant’anni di vita ma ne dimostra molti di più. I morti non sono mai mancati da quando, nel 1970, venne scavata la prima fossa. Ci sono le tombe di chi ha sfidato lo Scià quando sembrava imbattibile e di chi ha perso la vita nella guerra con l’Iraq.
I corpi dei militanti del Tudeh, il Partito comunista iraniano, e di chi si è opposto alla rivoluzione khomeynista non riposano qui. Per il governo islamico non erano degni di condividere lo stesso campo santo dei combattenti sciiti. Sul finire degli anni 80 vennero scavate per loro fosse comuni in un luogo desolato della periferia sud di Teheran che chiamano Lanatabad: la terra dei dannati.
A Behest-e Zahra la parte dedicata ai martiri continua ad espandersi. Alle tombe dei ragazzini armati solo di fucile, che correvano incontro ai carri armati iracheni cercando la santa morte, si aggiungono quelle dei pasdaran che hanno appena perso la vita sul fronte siriano contro l’Isis. I media mainstream cercano di far credere che l’Iran sia un paese di terroristi, ma in realtà ha affrontato davvero lo Stato islamico contribuendo alla sua sconfitta.
Nel 2017 l’Isis ha organizzato due attacchi suicidi a Teheran, uno al Majles il Parlamento iraniano, e l’altro al mausoleo di Khomeyni, a due passi da Behest-e Zahra. Se avesse attaccato il Bundestag, il Congresso degli Usa o la Knesset israeliana ne staremmo ancora parlando. Ma attaccò l’Assemblea islamica di Teheran, meglio dare la notizia en passant per non mettere in pericolo la narrazione iranofoba degli ultimi tempi.
A Behesht-e Zahra, davanti alla tomba di un adolescente morto durante la riconquista di Khorramshahr ho conosciuto Majid. Tutti i venerdì va a trovare i suoi due fratelli caduti durante la guerra con l’Iraq. Mi ha portato a visitare le tombe degli ultimi soldati morti in Siria. “Tutto il mondo li dovrebbe ringraziare”, continua a ripetermi.
Majid ha combattuto l’Isis in Iraq e in Siria. Adesso è distaccato sulle montagne tra Birjand ed il confine con l’Afghanistan dove gli agricoltori iraniani coltivano lo zafferano migliore del mondo e dove i narcotrafficanti afghani provano ad entrare in Persia carichi di eroina. I pasdaran ed i talebani si sono sempre detestati. La sola cosa che hanno in comune è la lotta al narcotraffico. Dopo la conquista talebana di Kabul, il mullah Omar bandì la coltivazione del papavero da oppio ma con l’invasione americana i trafficanti hanno ricominciato a fare affari d’oro.
È l’oppio ad aver vinto la guerra in Afghanistan. Oggi i tossicodipendenti afghani sono 3 milioni, 120.000 sono bambini. In queste ore decine di migliaia di profughi stanno provando ad entrare in Europa dalla Turchia attraverso i confini greci e bulgari. Molti sono afghani fuggiti dall’inferno di Kabul.
L’amore per il generale
Soleimani non era un terrorista, era un soldato e ucciderlo è stato l’ennesimo regalo che gli Stati Uniti hanno fatto alla Rivoluzione islamica.
Majid l’ha incontrato sul fronte siriano nel 2017 durante la battaglia per liberare Al-Bukamal occupata dall’Isis. “È arrivato in prima linea senza dare alcun preavviso”, mi dice commosso. “Lui era un soldato come noi, stava lì con noi. Mangiava quello che mangiavamo noi e rischiava la vita come noi tutti”.
I pasdaran oltre a essere un corpo militare negli anni sono diventati una potente lobby economica. Hanno interessi nelle opere pubbliche, nel settore edilizio. Possiedono cinema, ristoranti, centri commerciali e sono molti i pezzi grossi che si sono approfittati del proprio potere e vivono nello sfarzo. Ma non Soleimani al quale tutti riconoscono coerenza, coraggio e sobrietà. Soleimani è sepolto a Kerman, nel sud dell’Iran. Il cimitero si trova ai piedi di due montagne tagliate al centro dalla strada che porta a Arg-e Bam (la cittadella medioevale costruita interamente in adobe e rasa al suolo dal terremoto del 2003) e che prosegue verso il Pakistan.
A Kerman due sono le cose senza fine: il bazar con i suoi vicoli, i caravanserragli ed i negozi di spezie e datteri e l’amore per Soleimani. Come voleva il generale, sulla lapide c’è solo una scritta: “Soleimani, soldato”.
Su quella tomba, ogni giorno, vanno a pregare centinaia, forse migliaia di persone. Vengono da tutto l’Iran. Le donne piangono, baciano la lapide di marmo nero, la accarezzano e la lucidano in continuazione con panni bagnati con acqua di rose. Anche gli uomini hanno gli occhi lucidi e molti di loro salutano il generale dando alla tomba piccoli colpi con la mano dove indossano l’anello sciita.
I tanti Iran
In Iran ho parlato con centinaia di persone di ogni estrazione sociale e credo politico. C’è chi si augura la morte della Guida suprema e chi la sua immortalità. C’è chi si è, giustamente, indignato per l’abbattimento dell’aereo ucraino e chi riconosce al governo di essersi assunto le proprie responsabilità, seppur con quattro giorni di ritardo. C’è chi odia l’Islam e si sente straniero in una Repubblica islamica e chi, ogni anno, percorre decine di chilometri per raggiungere la città santa di Najaf, nell’Iraq del sud, per rendere omaggio ad Alì, primo Imam sciita. Più che dell’Iran si dovrebbe parlare degli Iran. Ad ogni modo il trasporto e la commozione che provavano le persone davanti alla tomba di Soleimani sono reali e chiunque intenda occuparsi della Persia ne dovrebbe tener conto.
All’ingresso del cimitero c’è un grande chiosco. Il tè lo servono i soldati della Liwa Fatemiyoun (la Brigata di Fatima), milizia sciita afghana nata nel 2014 per combattere l’Isis. I suoi quadri provengono dalle milizie dei mujaheddin che affrontarono i sovietici quando invasero l’Afghanistan. Allora erano “buoni”, oggi sono “cattivi” perché schierati dalla parte di Assad. L’Islam non è un monolite ed il Medio Oriente è la regione del mondo più difficile da capire.
I soldati afghani della Brigata di Fatima negli ultimi anni hanno avuto il compito di difendere dall’Isis il santuario di Sayyida Zaynab che si trova alla periferia di Damasco e che, secondo gli sciiti, custodisce le spoglie di una nipote di Maometto. Oggi accolgono i partigiani di Soleimani. Sono afghani, eppure prestano servizio al di fuori del loro Paese. D’altronde fanno parte dell’asse sciita, un fronte oggi ancora molto forte.
Un assassinio scientifico
Washington sapeva perfettamente che assassinare Soleimani, una figura così amata e così rispettata, avrebbe ricompattato l’asse sciita. Eppure l’hanno ucciso lo stesso. Perché?
Coloro che vogliono la pace in Medio oriente sono davvero pochi. L’industria bellica sogna guerre infinite con infiniti ordini di armi. I potentissimi trafficanti di eroina amano i conflitti perché con i soldati che guardano altrove i carichi passano facilmente. I mercenari trovano lavori ben pagati. Capi di Stato senza scrupoli, come Erdogan, utilizzano i profughi per ricattare la sempre più inconsistente Unione europea. Le transnazionali del cemento hanno bisogno di macerie per fare business sulle ricostruzioni. Poi c’è la politica, quella che ha a che fare con elezioni imminenti e con le esigenze comunicative.
Ordinando l’assassinio di Soleimani, Trump sapeva di riaccendere il conflitto con l’Iran; sapeva che milioni di persiani sarebbero scesi in strada gridando marg bar Amrika, marg bar Esrail (morte all’America, morte a Israele) e sapeva che queste parole avrebbero spaventato la popolazione israeliana. E la paura avrebbe aiutato Netanyahu e la destra nazionalista a vincere le elezioni del 2 marzo. Così è stato.
Nessuno in Iran identificava Soleimani come estremista. Fu a lungo un sostenitore di Rafsanjani, l’ex-Presidente il quale, probabilmente all’insaputa di Khomeinei, raggiunse con gli Stati Uniti una serie di accordi per l’acquisto di armi durante la guerra con l’Iraq. Quando la notizia divenne pubblica, a Washington, scoppiò lo scandalo Irangate. Soleimani amava i pasdaran ma non gradiva la loro ingerenza nelle elezioni.
Sulle qualità strategico-militari del generale avevano fatto affidamento gli stessi americani durante i primi anni di guerra all’Isis.
Uccidendolo, la Casa Bianca ha regalato al governo islamico un altro martire, forse il più amato della storia recente della Persia. La stazione dei treni di Kerman è stata appena ribattezzata in suo nome. Ogni giorno gli vengono dedicate nuove piazze e vie. Molti giovani usano le foto del generale per il profilo di whatsapp.
Ai suoi funerali hanno partecipato oltre 7 milioni di cittadini. L’obiettivo degli Usa è indebolire l’Europa e impedire l’implementazione del progetto della Nuova via della Seta con la Cina. Colpire l’Iran spingendo la pubblica opinione persiana tra le braccia dei partiti anti-occidentali è uno degli obiettivi.
Il comportamento di Washington non scandalizza, semmai indigna l’accidia, la codardia e il collaborazionismo di Bruxelles. L’Unione europea continua a scavarsi la fossa con pale acquistate a caro prezzo dagli Usa. È l’Europa che deve affrontare il dramma dei migranti sui propri confini.
Non si tratta di sostenere né Assad, né la Guida suprema in Iran, né il regime talebano con il quale, dopo anni di guerra inutile, dannosa e fondamentalmente persa, lo stesso Trump ha iniziato a dialogare. Va sostenuto il Vecchio continente, sempre più vecchio e decrepito, e il nostro Paese. Ebbene è nel nostro interesse riprendere l’accordo sul nucleare con l’Iran come sarebbe nel nostro interesse riaprire l’ambasciata italiana a Damasco.
L’Europa, se esistesse, dovrebbe fare egemonia e se fosse stata lungimirante avrebbe disinnescato il pericolo jihadista. Tuttavia sembra non voler imparare mai. Altrimenti non avrebbe taciuto di fronte all’assassinio di Soleimani. Se non la smetterà con l’autolesionismo e non sarà capace di ribellarsi agli editti statunitensi morirà senza alcuna dignità e senza neppure un martire da celebrare.
(3 – continua)