La “Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva” (Siaarti) ha diffuso un documento indirizzato al governo che avrebbe meritato una discussione più ampia. Dichiaro subito che sono ormai vicino agli 81 anni, per cui confesso che attendersi da me del distacco emotivo o una disattivazione della sfera dei sentimenti è assurdo, come dire che il vino prodotto nelle Langhe vale quanto gli ignobili intrugli dei wine kit.
Nello stesso tempo non intendo appellarmi (sarebbe stolida arroganza) all’autorità o saggezza che solitamente si ritengono essere diretta conseguenza dell’età. Debbo anzi superare il timore reverenziale che la denominazione stessa (obiettivamente fragorosa) della “Società” suscita in me; consapevole come sono che quando comincia… l’algoritmo – anche quello medico/sanitario – io mi perdo. So pure che il destino dei figli degli uomini è (citando José Saramago) “dall’argilla all’argilla, dalla polvere alla polvere, dalla terra alla terra, nulla comincia che non debba finire, nulla finisce che non cominci”.
E tuttavia non riesco a liberarmi dalla sensazione che quel documento contenga una nota stonata nei confronti dei vecchi come me. In sostanza esso sostiene che prima o poi, perdurando la disastrosa emergenza del coronavirus, sarà necessario fissare un limite di età per l’accesso alle terapie intensive, basato sulle maggiori possibilità di sopravvivenza e sul fatto di avere più anni di vita salvata. Non è proprio l’invito a selezionare gli ingressi in ospedale stilando liste differenziate a seconda dell’età, fino a prevedere una specie di “proscrizione” dei più vecchi e malandati, ma un poco ci assomiglia.
Il documento si preoccupa di avvertire che affrontare il tema dell’accessibilità o meno alle cure intensive può essere moralmente ed emotivamente difficile. È ovviamente giusto porsi anche questo problema. I medici della “Siaarti” lo risolvono dicendo che il loro è solo un tentativo di illuminare il processo decisionale del singolo anestesista/rianimatore (che sia posto di fronte al dilemma di chi “privilegiare” quando non vi sia possibilità di trattamento intensivo per tutti), offrendogli un piccolo supporto che potrebbe contribuire a ridurne l’ansia, lo stress e soprattutto il senso di solitudine. Bene, ma col difetto di trascurare l’ansia, lo stress e il senso di solitudine che il documento non può non provocare nei vecchi, specie se malandati. I quali, trovandoselo squadernato dai media, poiché esso sembra (forse al di là delle intenzioni) escludere di fatto ogni residuo spazio di speranza, inevitabilmente saranno portati a rimuginare sul triste destino senza scampo che potrebbe loro toccare, quando l’eventuale ricovero in ospedale non fosse più per curarli ma soltanto per sostituire ai medici il decorso del tempo necessario a morire.
Intendo dire che, imperniando il ragionamento sulle aspettative di vita e circoscrivendolo in quest’ambito, si finisce per trascurare il profilo altrettanto se non più importante della qualità della vita dei vecchi, che sebbene ormai breve, non merita assolutamente di essere avvelenata da angosce indotte che si aggiungano a quelle fisiologiche.
Questo, a mio avviso, il difetto del documento dei medici. Cui si debbono peraltro riconoscere vari pregi: l’evocazione nient’affatto retorica dell’abnegazione di cui medici e infermieri danno quotidianamente prova; la perentoria raccomandazione alla comunità tutta di starsene quanto più possibile in casa per evitare sviluppi catastrofici; la sacrosanta richiesta di aumentare i posti e potenziare le attrezzature in rianimazione; la motivata prospettazione dei pericoli di ricaduta dell’emergenza (se non adeguatamente fronteggiata) sul sistema sanitario intero e non solo sul versante dei pazienti vecchi. Che tuttavia, per concludere, non debbono di certo sopportare – per… statuto – colpe che non hanno. E neppure un’etica clinica quantomeno apodittica.