La peste del 1630 aveva già il suo Bertolaso

Di Massimo Novelli
12 Marzo 2020

Non c’è davvero mai niente di nuovo sotto il sole, come si suole dire, soprattutto in tempi di pubblici mali, di contagi, di “emergenze”, di invocati “super commissari” alla Guido Bertolaso. Cioè, in questo caso, erano quelli, nel secolo XVII, “tempi di peste” in cui “sogliono, si per male intelligenze, che per altra via, e modo, valersi dell’occasioni i forfanti, mal inclinati, disubbidienti, e ladri, che non conoscono Iddio”.

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Correva l’anno 1630, la peste mieteva migliaia di vittime. A Torino, nel Ducato di Savoia, come scriveva il cavaliere Gaetano Moroni nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, pubblicato a metà del 1800, “colui che con instancabile zelo e benchè infermo studia va riparare a ogni disastro, fu il 1º sindaco della città Giovanni Bellezia, coadiuvato dal protomedico Fiocchetto e dall’avvocato Beccaria il solo rimasto del consiglio sanitario: questi 3 umanissimi e religiosissimi gentiluomini fecero prodigi di carità”.

Ed è proprio Giovanni Francesco Fiocchetto (1564-1642), passato alla storia come “il medico della peste”, a scrivere nel suo Trattato della peste, o sia contagio di Torino nell’anno 1630 che, in aprile, le autorità rimaste emanarono l’ennesimo ordine per i cittadini, “che istituì una quarantena da osservarsi da ogni uno in casa propria di giorni vinti, cominciata il primo di Maggio”. Si comandava “ad ogni uno far le sue provisioni per detto tempo, ed à chi non avesse il modo, d’uscire dalla Città. Ai poveri mendicanti di ritirarsi all’Ospedale della Nonziata fuor delle mura, ed à gli abitanti nel territorio di potere coltivar loro possessi, senza uscir da quelli per detto tempo. Questo nuovo ordine, e quarantena, con comandamento d’uscire, ed i nuovi casi di peste, che s’andavano scoprendo misero tanto terrore nelle menti, che non solo alienarono gli animi dei Nobili, e ricchi a ripatriare, mà si videro presto carri, e bestie da soma è portare fuora le robe de’ più comodi, che si ritirarono, chi quà, chi là, dove avevano comoditá, e credevano star sicuri”.

Dopo qualche giorno, continua Fiocchetto, “che s’estinse questo ultimo introdotto contagio, s’introdusse pian piano la liberazione della Città, distribuendo bollette di sanità in stampa à i Cittadini, ed altri per andar fuora, fatte dall’eletto per la distribuzione di quelle, e firmate da uno dei deputati del Magistrato, e riconoscendo le presentate da i forastieri, primo dagl’eletti à quest’uffizio alle porte, e da uno dei suddetti del Magistrato”.

Fatti gli ordini, le “bollette” (o [auto] certificazioni, si dice ora), c’era però chi li violava e ci speculava sopra, visto che l’occasione, come si sa, fa l’uomo ladro, ieri come oggi. Perché, dice il protomedico Fiochetto, “in tempi di peste sogliono, si per male intelligenze, che per altra via, e modo, valersi dell’occasioni i forfanti, mal inclinati, disubbidienti, e ladri, che non conoscono Iddio, perchè non lo vedono, e non lo palpano, salvo sotto spezie di pane, hò giudicato necessario metter quà immediatamente il freno, che loro conviene, cogli ordini già pubblicati, mà poco messi in esecuzione, perciò poco osservati”.

Sono parole scritte per la peste del 1630. Valgono per questi tempi in cui si invocano i “super commissari”.

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