Due tristi proposte di vita, privata e sociale, sono andate su e giù nelle discussioni, nei progetti e nella pratica di una nuova civiltà politica. La prima è la frase ripetuta come una grande intuizione e una straordinaria innovazione: uno vale uno. Che vuol dire: non perdere tempo a cercare gli altri. Non servono né rappresentanti né intermediari. Ti metti in fila per sostenere ciò che in esclusiva ti interessa, senza inutili discussioni e confronti, e ti farà da guida il risultato di un voto automatico, detto “piattaforma”. La seconda proposta è: prima di sapere, prima di verificare, chiudere. Se necessario, come nelle proposte Salvini-Meloni ai tempi dell’immigrazione in Italia, o nelle iniziative della polizia greca, usare la forza.
Prima che queste due proposte politiche diventassero strumenti abituali di una maggioranza di governo, è arrivato il virus. Il virus che, a quanto pare, ha una volontà di ferro e una concezione decisamente sovranista dei rapporti con gli umani: ci concede, forse, qualche esenzione dal contagio ma solo a patto che uno valga uno, uno in farmacia, uno a trovare cibo, uno ben distanziato dall’altro, per evitare il vero pericolo: essere una comunità. Se necessario, nuovi contagi saranno la prova della violazione di ciò che è prescritto.
La chiusura in casa (praticamente le regole chiedono di non aprire mai la porta, come per gli immigrati) completa la strana messa in scena di un’ideologia che – se non ci fossero stati il Papa, alcuni vescovi e alcune voci sparse ma molto forti e appassionate nella Penisola – stava per diventare non solo prescrizione sanitaria e dura strada per la salvezza fisica, ma forma di governo e soluzione applaudita come forma nuova e sicura di protezione sociale.
Ma stiamo vivendo un complicato momento, mezzo Orwell (molte parole in voga sono false) e mezzo Lewis Carroll (il mondo è rovesciato, e potrebbe guidarci il Cappellaio matto), in cui non sappiamo dove andare e alle istruzioni dei medici non sappiamo accostare delle istruzioni politiche. E così, eccoci a vivere una vita da soli, bene isolati dagli altri, eccoci pronti a svicolare se qualcuno si accosta, nelle rare e sorvegliate fuoriuscite dal piccolo cerchio di solitudine. L’isolamento di solito è una pena giudiziaria tra le più dure. E noi ne abbiamo fatto una cura che stranamente riflette un progetto di nuova politica. Ecco che cosa è accaduto. Da un lato la sovrapposizione (quasi una maschera), di un triste modello politico trasformato in un pericoloso malanno, come in una fiaba. Dall’altro due vuoti: mancano una autorevole guida politica e una autorevole guida scientifica. Gente buona e debole tenta di accudirci (facendo in modo però che nessuno di noi sia informato e partecipi alle decisioni). La bizzarra analogia fra sistema politico (che era in agguato, ma non ha fatto in tempo a diventare regola) e malattia dell’isolamento e della solitudine, che riproduce per motivi di salute le stesse regole di triste adesione spontanea a un Parlamento vuoto e a un partito vuoto, crea certamente un pericolo perché un Paese in cui ciascuno deve salvarsi da solo, da lontano e al chiuso (fosse anche generoso e fraterno, fosse anche sfuggito alle regole di Salvini e dei vari gruppi di conservatori) non può immaginare un futuro.
Forse per questo la Conferenza Episcopale e il cardinale Bassetti hanno compiuto un gesto verso l’Italia che avrebbe dovuto occupare aperture televisive e titoli (tutti mancati) di giornali. La Cei ha scritto: “La Chiesa italiana sente il dovere di spiegare che condivide le limitazioni a cui ogni cittadino è sottoposto. Ma la situazione è gravissima anche sul piano economico con conseguenze enormi per le famiglie dell’intero Paese, a maggior ragione per quelle già in difficoltà o al limite della sussistenza, gli anziani, i malati, le persone sole. Occorre suscitare nei giovani la generosità e il desiderio di far dono di sé per ridare dignità a ogni creatura. L’Italia vive un momento di forte incertezza e questo si riflette sulla vita di tutti i giorni di tanti. Dunque è notevole il carico che grava sulle spalle di gran parte della popolazione. Da questa prospettiva guardiamo con attenzione alla legge di Bilancio. La Chiesa è una comunità che non si rassegna a situazioni violente e a situazioni sociali ingiuste. Sentiamoci convocati dal Vangelo. Sarà più facile avvicinare e riconoscere i tanti immigrati che vivono accanto a noi”. La Cei (e nessun partito politico) ha dunque proposto all’Italia un nuovo concordato (so che la parola può sembrare eccessiva), detto in un testo quasi tutto laico, che chiede fraternità e cooperazione, propone che un Paese spezzato dalla politica diventi una comunità di vita insieme, ognuno in aiuto dell’altro persino se una quarantena obbliga alla separazione. C’è energia, speranza, e non si promette la mano di Dio, ma il coraggio che fatalmente generano le persone insieme. E i doveri congiunti dello Stato e dei cittadini. È ragionevole far finta di niente?