Me lo sono fatto da piccolo, il morbo. Be’, da adolescente. Ora sono immunizzato. Italia-Germania 4 a 3. Si ulula, Rivera nel cuore, fanculo Schnellinger.
Via in strada, io e tre ipereccitati, in barba a un’acne da rivista medica e alla carestia di figa, evocata in mille narrazioni, mai vista personalmente. Fiat 500 e tettuccio aperto in una fiumana di altri urlatori con bandierone. Braccia su, inno, abbracci con quelli delle auto vicine, soprattutto quelle.
Poi il morbo attacca. Noi siamo impegnati. Noi sentiamo i King Crimson. Noi non andiamo in discoteca, andiamo al Filmstudio, a scassarci le palle con certi underground messicani da depressione invalidante. Noi non indossiamo pantaloni a zampa d’elefante. Bruno, messo dietro perché era secco come uno appena liberato da Mathausen, dice “Ragazzi, che stiamo facendo?” Cala il silenzio nell’abitacolo. E io: “Panem et circenses. E il popolo obbedisce”. Segnale clinico serio. Inversione a U e a casa.
Infezione da Puzzaalnaso70 (dal decennio in cui il morbo apparve falciando vittime a sinistra). Lo pensavo debellato grazie alle recenti scoperte della scienza, schiaffoni elettorali o trionfo della Lega. No. Il Puzzalnaso70 si riaffaccia, mietendo nuove vittime. Uno non canta l’inno in balcone perché “sono internazionalista, che senso ha?” o perché cantare e sbracciarsi è cheap.
Un altro, da intubare, afferma “quelli che cantano in balcone sono stonati in modo atroce”. Altri ammoniscono pensosi “gli italiani scoprono l’unità nazionale solo quando hanno paura”. Coraggio, sconfiggere il Puzzalnaso70 non è difficile. Basta non sentirsi speciali, niente distinguo, sgolarsi e volere davvero bene al prossimo tuo come diceva quello, una cosa molto di sinistra. Io l’inno lo canto. E a Capodanno farò pure il trenino.