Nell’emergenza del rientro dei nostri connazionali all’estero rientrano i minorenni sparsi per il mondo, partiti da soli per studiare nelle scuole superiori straniere.
A suonare la campanella è stata Intercultura, l’associazione più importante che per prima ha lanciato questi programmi decenni fa. Con Intercultura era partito anche Niccolò, lo studente simbolo di questa Covid-generation, 17 anni, rimpatriato con aereo speciale da Wuhan a febbraio. Proprio la sua storia dimostra la difficoltà di fare una scelta, in una situazione che cambia ogni giorno, per le famiglie dei minorenni. Niccolò ora vive con la famiglia, ma in un paese bloccato e ‘a rischio contagio’ più della Cina. Alcuni suoi coetanei, memori della sua storia, non vogliono tornare. Alcuni di quelli giunti all’estero con altre società e agenzie resteranno, mentre tutti quelli che erano fuori con Intercultura sono sulla via del ritorno. Il 15 marzo Afs, l’organizzazione internazionale a cui Intercultura è affiliata, ha deciso di “terminare anticipatamente i programmi di scambio in tutti i Paesi e di rimpatriare tutti gli studenti ai paesi di origine”. Lo scopo, secondo Intercultura, è “tutelare la sicurezza degli studenti in una situazione di pandemia”.
Gli studenti Intercultura erano 1.200. Al momento risultano rientrati da Egitto, Germania, Ghana, India, Norvegia, Russia, Spagna, Svizzera e Tunisia. Altri stanno rientrando grazie soprattutto ai voli organizzati da Alitalia (non solo per gli studenti) con l’Unità di crisi della Farnesina. Altre agenzie tendono a lasciare allo studente e alla famiglia la scelta. Sono centinaia gli studenti che, forti della situazione pessima del contagio in Italia, sono riusciti a convincere i loro genitori a lasciarli in Gran Bretagna, Australia, Canada o Stati Uniti, con il rischio della cancellazione dei voli nei prossimi mesi. C’entra anche il titolo talvolta. Lo studente, se ha seguito con profitto l’anno, in alcuni Paesi come Usa o Canada, può ottenere la graduation che gli permette l’iscrizione nelle università estere o nelle private italiane come la Bocconi o la Luiss, senza fare il quinto e la maturità in Italia.
Anche all’estero la situazione sta peggiorando e le scuole sono chiuse, ma i ragazzi italiani riescono ancora a uscire, fare sport e vita sociale. Francesco (tutti i nomi sono di fantasia), 17 anni, si trova nel Queensland e, grazie al fuso orario, riesce a seguire sia le lezioni online del suo liceo romano sia quelle (meno impegnative) dell’istituto australiano. Soprattutto segue l’andamento del Covid-19 in Queensland: 184 casi mentre nel Lazio, a parità di abitanti, sono mille. Poi va a surfare il pomeriggio, resta in spiaggia fino a sera, sente gli amici romani reclusi nelle loro case e ha convinto i genitori a lasciarlo in Australia. Giovanni mette il cappotto a North Vancouver. Anche lui è partito che aveva 17 anni ed è dovuto crescere in fretta. Anche lui si sente più sicuro lì con meno di mille contagi in tutto il Canada su 38 milioni di abitanti. Tito stava in Canada, ma il padre lo ha costretto a salire su un aereo, volente o nolente, con le lacrime agli occhi. Poi c’è Carolina che sta in Missouri e sta resistendo. Come per tutti i ragazzi, il padre le ha fatto i biglietti flessibili per tornare ma lei risponde con i numeri del contagio nello stato del centro degli Usa: appena 28 malati su 5 milioni di abitanti. Giovanni stava a Boston e aveva prenotato il volo per lo spring break (due settimane di ferie a marzo) in Italia, ma la madre ne ha approfittato per imbullonarlo a casa.
Nessuno sa chi sta facendo la scelta giusta. Il clima sta cambiando. Le famiglie ospitanti sono impaurite dalle uscite e cominciano a vedere i ragazzi come veicolo del virus. Alcuni stanno subendo forti pressioni dalle famiglie ospitanti con persone anziane per non uscire di casa. Gli italiani nei rispettivi paesi ospitanti sono il gruppo di studenti più restii a partire. Forse perché la situazione a Milano è peggiore che in qualsiasi posto al mondo. Quindi per ora non è difficile trovare un’altra famiglia in caso di braccio di ferro sulle uscite. Per ora. Fausto Vallerini, direttore di A-study, del Gruppo Educatius, è d’accordo con Intercultura: “Abbiamo 300 ragazzi sparsi tra Stati Uniti (il 60 per cento) Canada, Australia e Gran Bretagna. Noi consigliamo a tutti di rientrare. La situazione si sta deteriorando anche all’estero e temiamo la chiusura delle frontiere. Rischiano uno stato di semi-reclusione con le famiglie ospitanti che non gradiscono i loro contatti sociali per il rischio di contagio. Noi abbiamo già rimpatriato molti ragazzi. Il visto e l’assicurazione sono connessi alla durata del programma di studio e se le compagnie cancellassero tutti i voli lo studente rischierebbe di trovarsi in situazioni difficili”.