Papa Francesco predica bene ai tempi del coronavirus, passeggia nelle strade di Roma per andare a pregare in due chiese del centro, ma soprattutto per affermare quel non arrendersi alla paura e alla solitudine, e rilascia interviste (l’ultima a La Stampa di Torino, venerdì scorso) nelle quali ribadisce parole come queste: “Bisogna ricordare una volta per tutte agli uomini che l’umanità è un’unica comunità. E quanto è importante, decisiva la fraternità universale. Dobbiamo pensare che sarà un po’ un dopoguerra. Non ci sarà più ‘l’altro’, ma saremo ‘noi’. Perché da questa situazione potremo uscire solo tutti insieme”.
Frasi che, sia pure nei formalismi di risposte inviate probabilmente via Internet e giunte dalla clausura-quarantena che ha coinvolto anche la residenza di Santa Marta, non sembrano lasciare dubbi per ciò che riguarda la loro interpretazione nello stesso tempo più profonda ma anche più pragmatica: serve solidarietà. Tra gli Stati di una stessa comunità continentale e anche del Mondo, da parte di chi più ha avuto e ha nella nostra società, tra gli stessi cittadini comuni e nella vita di ciascuno di noi. Compresa la Chiesa, a cominciare da quella italiana, coinvolta in un’emergenza che per ora ha avuto uguali solo in Cina. Ma è a questo punto che, anche se sarebbe sbagliato spingersi a dire che Bergoglio predica bene ma il suo gregge razzola male, si comincia a intravedere una certa pigrizia (chiamiamola pure così, si tratta pur sempre di un “vizio capitale”) nelle gerarchie che guidano la Conferenza episcopale italiana: i vertici della nostra Chiesa.
Spieghiamoci con qualche esempio e qualche numero (i dati sono del Mef, Dipartimento delle Finanze). Facendo una media ponderale di quanto l’Unione buddista italiana e la Chiesa valdese hanno versato per l’emergenza coronavirus, in rapporto a quanto hanno ricevuto dall’8 per mille nell’anno 2019 sui redditi ripartiti nel 2015, emerge un dato del 20,33 per cento: i valdesi, infatti hanno ricevuto 43.198.823 euro e hanno donato sinora 8 milioni di euro (il 18,52 per cento), mentre i buddisti hanno donato 3 milioni di euro contro i 13.549.941 ricevuti (il 22,14 per cento).
Se quella media del 22,33 fosse dunque applicata al gettito dell’8 per mille arrivato alla Chiesa italiana nello stesso periodo (un miliardo, 131 milioni, 196.216 euro), l’ipotetica donazione alla “diletta nazione italiana” (così un tempo i pontefici chiamavano nei loro discorsi l’Italia) potrebbe raggiungere la cifra di 229 milioni, 972.190 euro. Per il momento, almeno consultando il sito della Cei, risulta un’unica donazione ufficiale, per l’emergenza coronavirus, di 10 milioni: affidati alla Caritas italiana. È vero infatti che l’8 per mille serve alla Chiesa (teoricamente) per mantenere il clero e i religiosi e per opere di assistenza e di carità già in corso, ma non è certo un destino diverso da quello che riguarda le identiche destinazioni alla Chiesa valdese e all’Unione buddista, mentre analoga è l’origine di quelle somme: la generosità degli italiani che oggi vivono in una situazione gravissima.
Non c’è da dubitare, però, che anche e soprattutto i vescovi italiani leggano le interviste del papa e quelle sue riflessioni sulla “fraternità universale”. E magari si preparino a dichiarare, come ha fatto il presidente dei vescovi spagnoli, che “sono a disposizione del governo sia le opere sia le risorse” della Chiesa.