Consigli di letture per la quarantena? Che scelta inelegante! Un brivido di ribrezzo attraversa i social. Anche noi avevamo delle riserve, prima: ciascuno legge quel che vuole, e poi è come consigliare i libri per le vacanze, col sottinteso che il resto dell’anno si può non leggere. Poi il cinismo di chi la sa lunga ce l’ha fatta apparire come un’ottima idea, e ci siamo messi di buzzo a buono a pensare libri e autori amici che ci accompagnino in questi tempi bui. Eccoli.
“La montagna incantata”, Thomas Mann. Hans Castorp, un giovanotto di buona salute, va a trovare il cugino malato di tubercolosi in un sanatorio, il Berghof, e non ne uscirà se non dopo 7 anni per arruolarsi nella Prima guerra mondiale. In questo micidiale congegno di 1000 pagine consiste l’incanto del titolo (ma per alcuni è più corretto Montagna magica, titolo poi adottato da Mondadori nell’edizione dei Meridiani 2010): una malia, una coazione a ripetersi, come un disco inceppato e voluttuosamente abbandonato alla sospensione dalla vita. Hans vive una vera spaventosa vacanza, nel senso etimologico del termine: un risucchio verso il vuoto e il silenzio. Nel Berghof – una casa di cura realmente esistente vicino a Davos, dove Thomas Mann aveva accompagnato sua moglie – Hans semplicemente attende, come Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani del Deserto dei tartari. Si innamora di una russa che sbatte la porta della sala colazione, alla quale dice la frase d’amore più bella della letteratura del Novecento: “Lasciami toccare devotamente con la bocca la tua arteria femorale”. Ma lei parte, torna dal marito, fuori dal Berghof, lasciandogli come ricordo una matitina “d’argento, sottile, fragile, un oggettino di minuteria”. La neve scricchiola, dentro di lui avviene “un grande crollo”. Continuerà per mesi a premere la matita sulle labbra e a pensarla che “sbatte le porte altrove, a un’enorme distanza”. Inchiodato dall’incantesimo nella ripetizione sempre uguale delle giornate, in una quarantena fisica che gli potenzia la psiche, Hans si contorce, spasimando, nell’intercapedine dell’assenza, allegoria della fine di un’epoca. In alternativa: Il respiro, Thomas Bernhard.
“Roma senza Papa”, Guido Morselli. Don Walter, sacerdote emigrato in Svizzera, torna in una Roma del futuro per un pellegrinaggio-aggiornamento teologico. La città in cui arriva in quella fine di Secolo ventesimo è una Roma-location, tristemente turistica, “un panorama di tetti fatiscenti, lontani capitelli di vecchie colonne”. La Chiesa romana, raccolta attorno all’università dei gesuiti, è avanzatissima: i sacerdoti, alcuni dei quali gay, espongono le loro bizzarre idee teologiche in una specie di slang romanesco-americano e pasteggiano a latte e a succo d’ananas. Soprattutto, la città è una Roma senza Papa. Giovanni XXIV – un irlandese di mezza età che non fa discorsi e non viaggia – ha abbandonato il Vaticano e ha trasferito la Sede Apostolica in una inappariscente residenza-motel a Zagarolo. Don Walter va a trovarlo e scopre un individuo dolce e sereno, che “vive nell’adesso”, alleva serpenti, ama il silenzio e il ronzio delle api nella sua ombrosa, elusiva solitudine; un personaggio in cui Morselli ha messo tutta la sua disperazione e la sua ironia. Suggestivo che Papa Francesco, l’altro giorno in pellegrinaggio per via del Corso vuota, sembrasse l’esatto reciproco letterario di don Walter: un Papa senza Roma.
“Il carcere”, Cesare Pavese. Nell’agosto del 1935 il povero Cesare venne mandato al confino in Calabria, dove restò 7 mesi. Questo è il diario, attribuito a un ingegnere di nome Stefano, di quei giorni passati in una casupola di pietra davanti alla ferrovia e al mare. È un romanzo per una lettura lenta, rarefatta, adatta alle ore di quiete, ancorché forzata; le frasi diluite e il linguaggio ridotto all’osso riecheggiano il silenzio visivo del Sud abbacinato dal sole meridiano, nelle strade riarse dove una donna selvatica e desiderata e cammina scalza. L’Italia sotto il fascismo, ancora piena di vestigia greche offese dalla violenza e dalla volgarità del regime, appare a Stefano come dietro un vetro. La clausura è angosciosa, “la lucida desolazione della canicola” lo intorpidisce; ma in lui sopravvive il germe della resistenza: “La solitudine sarcastica cedeva. E se cedeva in quella sera piena di tanti fatti nuovi e improvvisi ricordi, come avrebbe potuto resistere l’indomani? Senza lotta, s’accorse Stefano, non si può stare soli”. È un romanzo sulla nostra libertà, che abbiamo conquistato lottando a sangue contro il nemico.